Perché, nonostante una donna ricopra un ruolo come quello di Presidente, o di Presidente del consiglio, c’è ancora chi si ostina a dire “il presidente” e non “la presidente”?

La risposta non è solo grammaticale: è storica, culturale e profondamente politica.

Il maschile generico: uno specchio della società

Il cosiddetto maschile generico ha origini antiche. Nelle lingue indoeuropee, e quindi anche nell’italiano, il maschile ha tradizionalmente inglobato il femminile, diventando il punto di riferimento universale. Ma questa norma grammaticale non è affatto neutra: riflette una visione del mondo in cui il maschile è considerato la norma, mentre il femminile è l’eccezione, il particolare.

Prendiamo ad esempio la parola presidente. Fino a non molto tempo fa, quel ruolo era occupato quasi esclusivamente da uomini. Di conseguenza, il linguaggio ha registrato questa realtà sociale: il maschile è diventato il termine “naturale”. Ma cosa accade quando una donna sale su quella stessa poltrona? La lingua, così come la società, si trova a dover affrontare un cambiamento.

Perché si dice ancora “il presidente”?

Chi continua a dire il presidente per riferirsi a una donna spesso si appella a tre argomenti principali:

  1. La tradizione linguistica: “È sempre stato così, quindi perché cambiare?”
  2. La neutralità del maschile generico: “Il maschile vale per entrambi i generi.”
  3. L’eufonia: “Suona meglio.”

Tuttavia, questi argomenti sono fragili se esaminati con attenzione:

  • La tradizione non è un motivo sufficiente per impedire il cambiamento. Le lingue evolvono, si adattano alle trasformazioni della società.
  • Il maschile neutro è un’illusione: dire il presidente per una donna non è neutro, è invisibilizzante. Cancella la presenza femminile, suggerendo che quella donna occupi un ruolo “non suo.”
  • Quanto all’eufonia, anche parole come studentessa e dottoressa, avvocatessa o avvocata, sono state ritenute “brutte” all’inizio, salvo poi diventare parte del linguaggio comune.

Il linguaggio e il potere

Il linguaggio non è solo uno strumento di comunicazione: è potere, è rappresentazione. Se chiamiamo una donna il presidente, stiamo dicendo, implicitamente, che quella posizione è stata pensata al maschile, che quella donna sta occupando uno spazio che non le appartiene davvero.

La resistenza a usare forme come la presidente o l’assessora non è solo una questione di grammatica: è una questione di privilegio. Cambiare le parole significa mettere in discussione equilibri consolidati, significa riconoscere che le donne – storicamente escluse da certi ruoli – hanno diritto a occupare quegli spazi con piena visibilità.

Il linguaggio cambia il mondo e il mondo cambia il linguaggio

Il linguaggio e la società si influenzano a vicenda: quando cambiano le parole, cambia il nostro modo di vedere il mondo. Parlare di la presidente o l’ingegnera non è solo una questione di precisione linguistica: è un atto di riconoscimento sociale. È la prova che il mondo sta cambiando, che quelle posizioni non sono più dominio esclusivo degli uomini.

Allo stesso tempo, il linguaggio può accelerare il cambiamento. Quando una parola nuova entra nell’uso comune, diventa più facile immaginare nuove realtà. Se iniziamo a dire la presidente con naturalezza, non stiamo solo usando una parola diversa: stiamo modellando il nostro immaginario, stiamo educando le nuove generazioni a un mondo in cui quella parola è naturale quanto il presidente.

L’evoluzione è necessaria

Il linguaggio non è mai stato immobile: ogni epoca ha portato con sé nuove parole, nuovi significati. Resistere al cambiamento significa resistere all’evoluzione, ancorarsi a un passato che non rispecchia più la realtà.

Adattare il linguaggio alle trasformazioni della società non impoverisce la lingua, anzi: la arricchisce, la rende più precisa, più giusta. Dire la presidente significa riconoscere quella donna, il suo ruolo, la sua esistenza. È un piccolo cambiamento che porta con sé un significato enorme.

Parole che contano

Continuare a dire il presidente non è una scelta innocente. È un modo per negare, anche inconsapevolmente, il cambiamento sociale che stiamo vivendo. Usare il femminile, quando il femminile è corretto, è un atto di giustizia linguistica e sociale.

Perché il mondo cambia anche in base al linguaggio. E il linguaggio, a sua volta, ha il potere di cambiare il mondo.

Le parole contano. Scegliamole con cura.