La classificazione della carne è un caso studio di Architettura dell’informazione, che ho più volte sottoposto all’attenzione di altri e che non ha mai suscitato il mio stesso entusiasmo.
Il titolo iniziale di questo articolo era Architettura dell’informazione per carnivori, ossia la classificazione della carne. Un caso studio, sia chiaro, sia dal punto di vista culturale e antropologico, sia dal punto di vista della classificazione vera e propria che è riconosciuta nella prassi quotidiana dagli addetti ai lavori e dagli organi istituzionali che ne hanno definito la tassonomia stessa.
Classificazione della carne per architetti dell’informazione
Quando parliamo di cibo, non parliamo solo di ingredienti e di alimentazione, parliamo del mondo, della società, Claude Lévi-Strauss, sosteneva addirittura, del cosmo, di tutto insomma.
Ed è per questo che, ne sono certo, chi leggerà questo articolo, non resterà indifferente. Perché il cibo e la carne smuovono pensieri, sentimenti, esperienze di pancia, è proprio il caso di dirlo, sia che il cibo muova un certo languorino o un certo disgusto.
Roland Barthes in un saggio degli Annales16 “L’alimentazione contemporanea” ricorda che
Mangiare, da un punto di vista antropologico (d’altronde perfettamente astratto), è il primo dei bisogni;
Ma dacché l’uomo non si nutre più di bacche selvatiche, questo bisogno è sempre stato fortemente strutturato: sostanze, tecniche, usi entrano gli uni e gli altri in un sistema di differenze significative, e a quel punto la comunicazione alimentare è fondata.
E la prova della comunicazione non è data dalla coscienza più o meno alienata che i suoi utenti possono averne; è data semmai dalla docilità con cui tutti i fenomeni alimentari costituiscono una struttura analoga agli altri sistemi di comunicazione.
Gli uomini non hanno difficoltà a credere che il cibo sia una realtà immediata (bisogno o piacere), senza che ciò crei un ostacolo al fatto che esso costituisca un sistema di comunicazione.
E il cibo non è il primo oggetto che essi continuano a vivere come semplice funzione, proprio nel momento stesso in cui lo costituiscono come segno.
Gianfranco Marrone, professore ordinario di Semiotica nell’Università di Palermo, insiste.
Non mangiamo solo per nutrirci o solo per godere dei sapori. Al di là della natura funzionale ed estetica degli alimenti, c’è la loro natura semiotica, ciò che ha permesso all’uomo di allontanarsi della sua natura animalesca per costituire forme diverse di cultura e di civiltà.
Mangiare carne, dunque, non è solo scegliere un taglio, tagliarlo, cucinarlo, stabilire calorie e costi, ma è anche aderire ad un sistema di comunicazione, un protocollo di usi, di situazioni e di comportamenti.
Chi mangia carne o non la mangia invia un messaggio a tutti coloro che gli stanno intorno.
Entrare in una macelleria kosher racconta, tra l’altro, che l’animale che andremo a mangiare è stato macellato seguendo procedure ben precise. Chi non mangia carne di maiale ci dice che sta seguendo una prescrizione sanitaria e religiosa. Organizzare un pranzo, una cena, una festa, un matrimonio, a base di carne o di pesce, invia un messaggio quasi sempre chiaro agli ospiti.
Gli alimenti dunque costituisco un’informazione e sono significativi.
Ancora Roland Barthes scrive
“Possiamo pensare al cibo come un vero e proprio segno, cioè l’unità funzionale di una struttura di comunicazione.”
Massimo Montanari, docente di Storia dell’alimentazione, nel suo libro “Il cibo come cultura” definisce la nostra cucina come rappresentante della nostra cultura e costruisce un parallelo tra cultura gastronomica e grammatica.
“Abbiamo i morfemi (ingredienti e prodotti), la morfologia (modi di trattarli), la sintassi (il pasto che dà senso ai primi due), la retorica («il modo in cui viene allestito, servito e consumato» il cibo).”
Architetti dell’informazione del cibo
Ma perché proprio la carne e non altro?
Penso ed ho sempre notato che la carne, forse anche per il suo aspetto passionale, succulento e sanguinolento, sia un argomento che divide nettamente le persone.
Certo, da sempre abbiamo diviso il mondo tra ciò che è commestibile e ciò che è immangiabile. Sia che apprezziate la carne o ne disprezziate il consumo ciò che mangiamo ripropone i processi del corpo a livello sociale e culturale. Non possiamo sottrarci. Mangiare segue, infatti, l’orientamento corretto di trasformazione delle materie. Ciò che entra è buono, ciò che esce è cattivo. Il contrario è ritenuto un atto di perversione o psicopatia, un capovolgimento parziale o totale dell’ordine naturale, morale ed estetico.
Scegliere cosa mangiare ci definisce
Mangiare sta alla base dei nostri bisogni e scegliere cosa mangiare (preferire la funzione di un ingrediente rispetto ad un altro) ci definisce. Mangiare carne o non mangiarla pone le persone su piani diversi. Ci divide tra carnivori (chi ha sempre mangiato carne) e vegetariani (chi ha scelto altre vie di alimentazione). Quasi sempre la scelta è avvalorata da convinzioni non banali. C’è chi sceglie diete senza carne per motivi alimentari e/o salutari, altri per motivi ambientalisti o morali ed etici.
Ma non vi preoccupate, niente di nuovo sotto il cielo. È sempre stato così. Parlare di cibo e soprattutto di carne crea tensione. Così come, e sempre per gli stessi motivi, crea delle connessioni, ci mette in relazione ad una comunità, ci fa aggregare.
La carne e il suo consumo ha da sempre diviso il mondo. Lo divideva un tempo tra chi cacciava e chi lo doveva cucinare, tra chi è rimasto nomade (cacciatore) e chi, invece, è diventato stanziale (agricoltore). Fino ad arrivare in un tempo, neppure troppo lontano, in cui mangiare carne, ancora, divideva le persone in ricchi (coloro che avevano la capacità economica e sociale di mangiare la carne, o chi possedeva abbastanza animali da poterli mangiare) e poveri (che al massimo si accontentavano, la domenica, delle frattaglie).
Non tutta la carne commestibile si mangia
Ma attenzione, chi è carnivoro non mangia qualsiasi carne, l’essere umano non mangia tutta la carne commestibile. Chi è carnivoro mangia determinate carni che derivano da determinati animali. Tutta una questione di vicinanza e significanza. Ad essere significativo non è l’animale in sé, ma la relazione che esso stabilisce con noi, e noi con loro. Tradizionalmente questa connessione è stata data dai luoghi che l’animale abita rispetto a noi.
La carne che mangiamo ha un suo posto nel mondo, nel nostro mondo. Tradizionalmente mangiamo tutta la carne che sta fuori dalla nostra casa, ci rifiutiamo di mangiare tutto quello che sta dentro casa. Questo non impedisce che in alcuni contesti e culture si seguano altre regole.
Per esempio, non mangiamo cani e gatti, oggi definiti animali d’affetto. Invece, mangiamo tutto quello che sta fuori casa e non ha relazione con noi. Animali che stanno nelle stalle o nell’aia, come vitelli, buoi, pecore, galline.
Tralasciamo, in questo contesto, tutto quello che unisce e divide nel mondo della cucina. Anche se poi, scegliere un ingrediente significa scegliere la funzione di ingrediente rispetto agli altri. E cucinare significa creare relazioni tra ingredienti.
La semiotica del cibo: oltre la semplice nutrizione
Il cibo, per molti di noi, è qualcosa in più di una semplice fonte di nutrimento. Ma avete mai considerato il cibo come parte di un sistema di segni, profondamente coinvolto nei processi di significazione? Un interessante documento intitolato “Senso e forma del cibo: sulla semiotica dell’alimentazione” esplora proprio questo concetto.
C’è chi solleva una domanda provocatoria: perché abbiamo bisogno di una semiotica del cibo?
La risposta risiede nel fatto che il cibo, oltre ad essere essenziale per la nostra sopravvivenza, gioca un ruolo chiave nella simbologia culturale e sociale.
In un’epoca in cui il cibo è al centro di dibattiti su salute, sostenibilità e identità culturali, comprendere la sua dimensione semiotica può offrire spunti di riflessione unici. Se siete curiosi di esplorare il cibo da una prospettiva completamente nuova, vi consiglio vivamente di leggere questo documento: Senso e forma del cibo. Sulla semiotica dell’alimentazione di Gianfranco Marrone (2015, Il cibo nelle arti e nella cultura) Link al documento completo
Attraverso un’analisi approfondita, il documento esamina il simbolismo del cibo e il sistema alimentare, proponendo nuove prospettive e sottolineando l’importanza di un approccio interdisciplinare.
Classificazione della carne: un caso studio
Ritorniamo alle nostre amate classificazioni. Se dunque il cibo è linguaggio, il cibo è definito da nomi e da una lingua.
Una lingua che in passato, più che nel presente, è una lingua specializzata. I nomi della carne variano da dialetto a dialetto, da regione a regione, da comune a comune.
Purtroppo oggi, molte di queste parole sono perdute o in fase di estinzione. Nella mia tesi di Laurea, i nomi della carne, a cui rimando per chi è interessato, la carne è diventa elemento di indagine linguistica, fotografando una lingua specialistica che si sta perdendo.
Classificazione della carne in linee generali
La carne si può classificare per conservazione: carne fresca o congelata; per specie: carni bovine, bufaline, carni equine, ovine, caprine, suine; per morfologia dell’animale: ungulati domestici, pollame, lagomorfi, selvaggina.
Ma c’è anche e soprattutto una classificazione della carne per aspetti merceologici quali colore, odore, consistenza, finezza e succosità.
C’è una classificazione per carcassa, che all’ingrosso avviene seguendo un codice ben preciso.
La normativa comunitaria è stata costretta a classificare la carne
“per le varie finalità e la corretta rilevazione dei prezzi di mercato, per dare uniformità nella rilevazione, rendendo comparabili le informazioni rilevate sulle varie piazze e assicurare una migliore trasparenza del mercato”.
Insomma per poter definire la qualità / prezzo di un alimento che non ha caratteristiche uniformi.
La classificazione della carne a livello europeo è detta S, E, U, R, O, P, che stabilisce la qualità della carne, dalla migliore alla peggiore, in base alla conformazione della carcassa, intesa come sviluppo dei profili della carcassa ed in particolare di coscia, schiena e spalla.
Il caso studio completo e dettagliato, con la classificazione della carne si trova nel sito “I nomi della carne – un indagine linguistica” con una bibliografia completa sul tema.
Una tesi di laurea sui nomi della carne
Ma perché mi permetto di parlare della classificazione della carne? Perché il tema della carne, oggi argomento così divisivo, ritorna sempre nella mia vita e perché ne parlo anche sul mio blog?
Intanto perché la mia tesi di laurea in lettere moderne aveva come titolo I nomi della carne. Poi perché vengo da una tradizione di macellai. Mio nonno lavorava con le mandrie di buoi, mio padre e mio fratello macellai. E anch’io dal liceo fino alla laurea ho praticato questo mestiere.
Amo il mio lavoro e le mie origini
Amo il mio lavoro. Amo fare quello che faccio. L’architettura dell’informazione è ed è stata una scoperta entusiasmante. Mi entusiasma studiare, imparare cose nuove. Amo organizzare le informazioni, spesso confuse e caotiche dei mie clienti. Mi piace sopra ogni cosa poter fare delle scelte e dare delle spiegazioni sulle scelte che faccio.
E soprattutto amo queste spiegazioni quando derivano da una buona progettazione.
Aiutare gli altri, essere al loro servizio
Stefano Bussolon, tempo fa, riguardo il suo essere architetto dell’informazione, scriveva sul suo blog.
Mi piace l’idea di aiutare gli utenti a prendere delle decisioni in base a delle informazioni. Mi piace fare ricerca, concettualizzare, categorizzare, rappresentare.
La cosa che mi piace meno, dell’architettura dell’informazione, è il nome. Perché io non sono un architetto, non mi sento un architetto, e non ho la sensazione di fare architettura. Non nego che la metafora dell’architettura sia – o sia stata – feconda. Sono consapevole che firmitas, utilitas, venustas siano il fondamento della user experience. Ma forse, abbiamo bisogno anche di altre metafore.
Devo però ammettere che ho sempre fatto fatica a trovare un nome – alternativo ad architettura dell’informazione – che mi piacesse. Ho provato ad immaginare qualcosa come psicologia della conoscenza, però confesso che lo trovo molto poco soddisfacente.
Poi, un giorno, l’illuminazione. Sarà che da adolescente ho fatto la scuola alberghiera. Sarà che ho vissuto 40 anni nell’alberghetto dei miei. Insomma, un giorno ho capito. Io non sono un architetto dell’informazione. Io sono un cameriere dell’informazione. E la cosa mi piace, perché un buon cameriere dell’informazione ha capito parecchie cose.
Su questa auto definizione non sempre tutti si sono trovati d’accordo, perché nel suo auto definirsi c’è la sua definizione di architettura dell’informazione. Altri, appunto, si sentono più architetti e dunque ne difendono il concetto.
Il macellaio dell’architettura dell’informazione
Al concetto di macellaio è sempre legato, per luoghi comuni, il concetto della distruzione e della brutalità. Un chirurgo di scarsa abilità è detto macellaio. O anche chi uccide o manda a morte senza scrupoli.
Ma questo stereotipo non rende giustizia alla complessità e alle competenze richieste da questa professione.
Intanto un macellaio possiede una conoscenza scientifica e approfondita dell’anatomia animale. Sa esattamente dove effettuare i tagli per massimizzare il valore e la qualità della carne. I tagli di carne, infatti, non sono casuali. Ogni taglio richiede precisione e tecnica per garantire che la carne sia tagliata in modo ottimale per diverse preparazioni culinarie. Un buon macellaio è attento a ridurre al minimo gli sprechi, utilizzando ogni parte dell’animale in modo efficiente.
Ma essere un macellaio richiede anche capacità di vendita, come la capacità di presentare i tagli di carne in modo attraente. Un macellaio deve saper valorizzare ogni pezzo di carne per renderlo appetibile e interessante ai clienti. E dunque deve essere in grado di fornire consigli su come cucinare e preparare la carne, dimostrando una conoscenza approfondita delle proprietà culinarie dei vari tagli.
E ancora la manipolazione della carne richiede un’attenzione rigorosa delle norme igieniche e di sicurezza. Un macellaio deve essere ben informato su queste pratiche per garantire la sicurezza alimentare.
Insomma, la macelleria è un’arte che combina tradizione e abilità artigianale. Molti macellai apprendono le loro competenze attraverso anni di formazione e pratica, perfezionando tecniche che devono essere tramandate di generazione in generazione. E che ahimè si stanno perdendo.
Architetto dell’informazione e macellaio
Dunque, nonostante le differenze tra le due professioni posso stirare il concetto di macellaio dell’architettura a mio favore trovando aspetti comuni nelle competenze e nei processi di lavoro.
Entrambe le professioni richiedono una combinazione di abilità tecniche, attenzione ai dettagli e capacità di organizzazione per raggiungere i loro obiettivi, applicati in contesti differenti.
Se da un lato l’architetto dell’informazione organizza e struttura contenuti digitali, siti web e applicazioni per renderli facilmente accessibili e comprensibili agli utenti. Il macellaio organizza nel banco i tagli di carne, garantendo che ogni pezzo sia preparato e disposto in modo logico e attraente per i clienti.
Entrambe le professioni sono votati alla precisione e all’attenzione ai dettagli. Se da un lato ogni elemento digitale deve essere nel posto giusto e deve funzionare correttamente, dall’altro lato i tagli devono essere precisi assicurandosi che siano fatti correttamente per massimizzare la qualità e il valore del prodotto.
E ancora, mentre l’architetto dell’informazione deve capire le esigenze degli utenti finali per progettare un sistema che soddisfi le loro aspettative e i loro bisogni, un macellaio deve comprendere le preferenze dei clienti per fornire loro i tagli di carne e i prodotti che desiderano.
Si potrebbe dire altro, ma non voglio forzare più di quanto ho già fatto. Ad ogni modo, tutto questo per raccontare un pezzo di vita importante e per spiegare, con altre metafore, il lavoro dell’architetto dell’informazione.