Sono felicissimo di poter ospitare sul mio blog Claudia Busetto e Vincenzo Di Maria.
Claudia e Vincenzo sono due persone che ho conosciuto grazie ad Architecta. Quando Vincenzo si è lanciato nell’avventura della Presidenza dell’associazione io mi ero appena iscritto all’associazione.
Ed è davvero incredibile come entrambi, professionisti, compagni di vita, colleghi si compensino a vicenda.
Chi è Vincenzo Di Maria?
Come Vincenzo racconta sul suo profilo LinkedIn Vincenzo Di Maria è
un service designer, formatore e facilitatore con esperienza internazionale. Partner di commonground Srl, uno studio di service and experience design con sede a Bologna. Il suo lavoro si concentra sulla progettazione dei servizi e sulle esperienze cross-channel, con approccio al design olistico, giocoso e incentrato sulle persone.
Inoltre, Vincenzo Di Maria è professore a contratto in Service Design presso l’Alma Mater Studiorum Università di Bologna e collabora con altre istituzioni educative in tutta Europa.
le sue competenze sono la ricerca progettuale, problem solving, co-design, prototipazione, facilitazione creativa, progettazione di servizi, design centrato sulle persone, processo di innovazione aperta, coaching e formazione professionale.
Per approfondire potete visitare il suo sito personale.
Chi è Claudia Busetto
Claudia Busetto è un designer con forti capacità comunicative. Ed è una persona molto concreta. il suo approccio progettuale come leggiamo dal suo profilo LinkedIn è
radicato nel comportamento delle persone e nella loro capacità di comprendere e utilizzare prodotti e servizi. Uso strumenti e metodi di diverse discipline per organizzare informazioni complesse e tradurre i risultati in linguaggi significativi.
E se volete conoscere meglio Claudia Busetto potete visitare il suo sito personale.
Chi sono Claudia e Vincenzo?
Claudia e Vincenzo sono i fondatori di commonground, uno studio di service design con sede legale a Siracusa e sede operativa a Bologna, dove abitano e lavorano tra tortellini e alta velocità.
Intervista per il blog
Qui è dove Vincenzo e Claudia mi raccontano del loro “common ground“, con le loro rispettive risposte.
Raccontatemi la vostra definizione affettiva di Design Thinking.
Claudia: Di solito lo definisco “buon senso ingegnerizzato”.
Vincenzo: Per me il Design Thinking è esplorazione di possibilità non ancora conosciute, pensiero sperimentale e analitico che si alternano in un unico processo. A volte “Design Thinking” è un termine scivoloso che viene diluito e perde di senso nella negoziazione con i clienti. Noi siamo progettisti anche nella pratica, il nostro common ground è il pensiero progettuale anche se veniamo da percorsi ibridi e abbiamo background differenti.
Quale parte del vostro lavoro vi piace e vi diverte maggiormente? Quali sono i vostri strumenti di lavoro?
Vincenzo: Mi piace affrontare problemi e progetti sempre diversi, cambiare prospettiva in base al settore, alle richieste dei clienti o ai collaboratori con i quali lavoriamo. Da quando le attività di collaborazione digitale si sono intensificate anche a causa della pandemia da COVId-19 alcune piattaforme come Mural e Miro sono diventate fondamentali per il nostro lavoro, rispondendo all’esigenza di visualizzare a distanza.
Claudia: Io lavoro volentieri nel “dietro le quinte” e uso molti editor di testo, sia per scrivere che per progettare – spesso in html. Da una parte amo fare tutto ciò che è concreto e immediatamente applicabile, per esempio analisi di usabilità o l’architettura dell’informazione di un sito: è bello vedere un cliente soddisfatto perché gli hai dato in mano qualcosa che può modificare da subito e con poco. Dall’altra mi piace molto progettare format per i nostri corsi e workshop, in un certo senso scrivere le sceneggiature delle esperienze che proponiamo ai nostri clienti.
Design Thinking e intelligenza artificiale.
Cosa ne pensate? Questa è la nuova frontiera?
Vincenzo: L’intelligenza artificiale cambierà il nostro modo di gestire la complessità, nella vita personale e in azienda. Il Design Thinking ha il ruolo di interrogarsi se una cosa abbia senso o meno ed esplorare alternative: non sempre l’intelligenza artificiale sarà la risposta ai problemi dell’uomo e della nostra società. Se messa a servizio della creatività umana sarà un grande vantaggio per tutti, se invece saremo noi a piegarci con dinamiche progettuali utilitaristiche alle leggi della tecnologia o alla massimizzazione degli algoritmi rischieremo di perdere la nostra libertà. Design thinking è rivoluzione, non indottrinamento.
Claudia: Più che con il design thinking vedo forte il legame con la psicologia e la comunicazione. Mi chiedo se potrò mai discorrere con Alexa come fa Joaquin Phoenix nel film HER, e non so dire se sarà un bene o un male.
Progettare è un atto politico
Durante il lockdown mi è stato chiesto di parlare di architettura dell’informazione. Si è trattato di una introduzione. Alla fine, c’è stato il momento delle domande e del confronto e alla fine siamo arrivati alla Politica, all’organizzazione di una città. Il mio pensiero è andato a voi e alla vostra visione politica del design.
Vincenzo: Progettare è un atto politico, come votare, acquistare, mangiare. Significa scegliere che forma dare alle cose, che processi e che materiali usare, quante linee di codice scrivere, che affordance dare alle esperienze, con un occhio all’impatto sociale e alle conseguenze ambientali.
Progettiamo le gioie e le frustrazioni quotidiane di migliaia di persone: abbiamo tutti le nostre responsabilità, ma quando progettiamo siamo chiamati a scegliere con maggiore consapevolezza. Scegliere di lavorare con la PA, il terzo settore o le PMI potrebbe suonare come una scelta poco strategica dal punto di vista della scalabilità dei modelli di business, ma sono questi i progetti che generano cambiamento nelle persone e nelle organizzazioni.
Claudia: Amo l’idea di un design democratico, che migliora la vita delle persone al di là dei soldi che possono spendere, e i migliori esempi sono nei servizi pubblici, come il fascicolo sanitario elettronico. Ma anche fare un bonifico o comprare un biglietto del treno da un’app è qualcosa di rivoluzionario, per chi si ricorda come funzionava prima. Con i prodotti è più complesso: IKEA parla di “design democratico” in quanto accessibile, ed è vero che oggi possiamo circondarci di oggetti belli e poco costosi come mai prima d’ora, appianando -almeno in apparenza- i nostri dislivelli sociali. Ma dobbiamo anche considerare i lati nascosti delle produzioni fast, partendo dal principio che se qualcosa è bello ma costa poco significa che il prezzo che non pago io lo sta pagando qualcun altro (per esempio i lavoratori nelle fabbriche in Asia).
Comunità di pratica
Durante il vostro mandato nel board di Architecta ricordo che avete molto puntato sul concetto di comunità di pratica. Intanto cos’è per voi una comunità di pratica? E quali sono, secondo voi, gli elementi fondamentali e/o le difficoltà per gettare le fondamenta di una comunità di pratica?
Vincenzo: Una comunità di pratica fa e condivide ciò che impara facendo. Non è una think tank o un’organizzazione istituzionalizzata, bensì è un organismo fluido che dipende dall’energia dei suoi componenti. Una comunità di pratica è basata su interessi comuni e reciproci, si nutre di curiosità e voglia di condivisione, agisce in modo capillare e inclusivo. Ma ricordiamoci anche che il concetto stesso di comunità di pratica nasce in ambito accademico dove visibilità, prestigio, voglia di emergere e invidie alimentano rivalità e fanno fluire l’energia dei singoli, che anno dopo anno si mobilitano portando dentro entusiasmo e un pizzico di ingenuità. Serve anche questo per mantenere viva la comunità, sono cicli vitali, un’evoluzione costante.
Claudia: per me Architecta è stata fondamentale, prima come luogo di scambio e supporto reciproco, poi per sperimentarmi in ruoli nuovi. Credo che il vero vantaggio di una comunità di pratica sia l’avere uno spazio protetto in cui mettersi alla prova, una specie di sandbox in cui prototipare nuove cose. La difficoltà maggiore per me è che non si può certificare a priori la qualità: se siamo tutti accomunati da un interesse verso una disciplina ciò non significa che siamo tutti ugualmente bravi a fare le cose, e allora come faccio a sapere che questo corso o questo workshop, proposti pur con molta passione, funzioneranno davvero e varranno i soldi spesi?
Problemi e soluzioni
Quando una azienda o un professionista si trova bloccato nel proprio lavoro o su un progetto spesso questo è dovuto alla difficoltà di capire il problema vero. Avete qualche consiglio o metodo da consigliare per andare al nocciolo della questione e al problema principale?
Claudia: anni fa una mia cara amica che lavorava da libera professionista mi disse “ricorda che i clienti iniziano a dirti la verità al terzo incontro”, e anche se sembra assurdo aveva ragione. Credo che sia un problema culturale, abbiamo difficoltà a riconoscere di avere un problema, di averlo qui e ora, e a chiamarlo con il suo nome. Abbiamo avuto clienti che ci pagavano per trovare cosa non andava, salvo poi, nel momento della condivisione, passare il tempo a giustificare ogni cosa come temporanea o passeggera. Il linguaggio è un secondo ostacolo, spesso le incomprensioni nascono dal modo in cui parliamo, dal nostro essere poco chiari mentre definiamo i perimetri. Io suggerisco di ripartire proprio dalla comunicazione, utilizzare il linguaggio per fare chiarezza e dare il buon esempio, fin dalla scrittura del preventivo. Dobbiamo essere onesti noi, nel chiamare le cose con il loro nome.
Vincenzo: Comprendere il problema è la vera sfida, la soluzione viene da sé e poi va scaricata a terra con le dovute competenze. Quando Archimede esclamò “Eureka!” lo fece in seguito a un lungo processo di ricerca, in un momento di distrazione e pensiero liminale, un momento cuscinetto tra ricerca e intuizione geniale. “Ha trovato” perché stava cercando. I problemi vanno indagati a fondo, risalire alle radici o cause profonde con la tecnica dei 5 perché può aiutare, così come saper ribaltare un insight o un problem statement in opportunità progettuale usando la tecnica denominata How might we…?
A volte però i problemi non riguardano il progetto ma il processo e le dinamiche di collaborazione: in questo caso visualizzare e proiettare scenari, flussi e modelli aiuta ad aumentare la consapevolezza condivisa del problema e a “vedere” soluzioni possibili.
Sulla progettazione
Tempo fa ho parlato con un architetto (non dell’informazione) su un suo progetto extra lavorativo. Guardando il risultato finale non trovavo il perché di quel lavoro, le motivazioni o gli obiettivi. Ho chiesto e la risposta disarmante è stata che non c’era risposta a queste domande. Quello che vedevo era quello che era venuto fuori. Mi chiedo e ti chiedo. Intanto se ti è capitato anche a te – É possibile che anche tra i professionisti manchi una cultura della progettazione? E come pensi si possa diffondere o creare questa cultura.
Vincenzo: Le Corbusier diceva che la differenza tra un artista e un architetto sta nel fatto che l’artista prima produce un lavoro e poi cerca di venderlo, mentre l’architetto o progettista segue l’iter opposto. Mi diverte il fatto che alcuni progettisti siano eclettici e imprevedibili, che il loro atto creativo sia un flusso di coscienza paragonabile a quello di molti artisti che seguono la propria ispirazione, è un pensiero che libera l’immaginazione. Detto ciò le implicazioni progettuali su un ambiente costruito o piattaforma digitale, sull’usabilità di un’app per il cellulare o sulla chiarezza di una bolletta telefonica possono avere effetti devastanti. Non progettiamo case o cose, progettiamo comportamenti e reazioni.
Per questo ci chiediamo il perché di ciò che facciamo, pensiamo alle persone che useranno il nostro prodotto/servizio e al contesto in cui lo faranno. È una questione di sensibilità, progettare per le persone e per gli ecosistemi è molto più complesso che progettare e basta. Per questo ci occupiamo spesso di formazione e divulgazione tra università e conferenze di settore.
Claudia: C’è una barzelletta Yiddish su due commercianti di salmone in scatola, uno ne vende una grossa partita all’altro, che lo assaggia e scopre che è andato a male. Infuriato, chiama il collega che gli dice stupefatto “ma no, non dovevi mangiarlo, questo salmone è solo per vendere-comprare, vendere-comprare!”. Negli anni ho visto molti progetti nascere senza nessun particolare motivo se non “far lavorare i fornitori”, che è un altro modo per dire che l’economia deve girare, e morire senza senza lasciare un impatto. Non è la situazione ideale, ma succede, e credo di capirlo ora che ho una società e faccio i conti con spese che prima non c’erano. Ancora meglio possiamo capirlo in questi tempi di pandemia.
Di viaggi, relazioni e sfide
Avete viaggiato e lavorato all’estero, così come in Italia, da nord a sud. Siete andati via, tornati e poi ripartiti. Al sud siamo senza speranze?
Claudia: Ho vissuto a Siracusa 3 anni e mezzo e una delle cose che ricordo con più chiarezza è il sistema relazionale come cardine di tutti gli scambi, professionali e non: che è estremamente affascinante, ma può rivelarsi controproducente se cerchi di lavorare con equidistanza, è difficile fare un preventivo o anche chiederlo, avere delle tariffe fisse, tutto sembra sempre contrattabile. E più si cerca il rapporto personale più è difficile sviluppare un approccio collettivo, ragionare su un’etica del lavoro, sviluppare -scusa il termine retrò- una coscienza di classe. Al sud molte cose possono funzionare benissimo, dipende da quanto quello che offri è percepito come rilevante: noi offriamo un’attività di consulenza che non costa poco, per risolvere problemi con cui molti sono abituati ormai a convivere… forse il problema è semplicemente saper aspettare che i tempi siano maturi.
Vincenzo: Dico “sud” e mi viene in mente la parola “sfida”, entusiasmo e passione misto a fatica e ostacoli da superare. Al sud ci sono nato, in un piccolo paese che il Montalbano televisivo ha reso celebre. Poi ho seguito la mia curiosità, non sono scappato ma mi sono scoperto un cervello in transito, l’Europa è il mio paese e la dimensione di confronto internazionale ha avuto una forza d’attrazione maggiore dell’etnocentrismo che accompagna molti di noi Siciliani. Roma, Londra, Lisbona e un viaggio di 11 anni tra studio, lavoro, progetti e connessioni. Poi il ritorno a Siracusa, per provare a diventare un Mediterranean changemaker, fare la differenza e tessere progetti di innovazione su una tela già carica di colore. Al sud si lavora il doppio e si guadagna la metà, può funzionare solo se si è disposti a investire personalmente e professionalmente, serve una grande determinazione e capacità per rendere sostenibile il progetto. In Sicilia serve più confronto tra professionisti del settore, altrimenti si rimane soli e le conversazioni diventano un noioso monologo nel mezzo di un mercato affollato di gente distratta, tra una granita e la voglia di ripartire.
E per finire le ultime 3 domande più leggere.
Consigliate un libro, un brano musicale, un film.
Claudia: il libro è Bianco di Bret Easton Ellis, è del 2019 ma è un saggio che mi ha fatto riflettere molto sull’epoca in cui stiamo vivendo. Come canzone scelgo “I am di Awolnation”: è tra l’altro nella colonna sonora di un film di qualche anno fa, Veloce come il Vento.
Vincenzo: per il libro sarò autoreferenziale, ma a novembre 2020 esce su UXUniversity il mio primo libro che si intitola “Start Small: il service design per le piccole aziende”. Sul brano musicale sono impreparato, ma direi “Common people” dei Pulp, mi ha sempre fatto ridere e pensare. Il film che suggerisco infine è “Parasite” perché a Seoul ci sono stato e mi ha colpito molto, ma soprattutto perché le architetture fisiche spesso riflettono anche le architetture sociali che ci circondano.