Qualche giorno fa, in una tavola rotonda, fra colleghi, dove si parlava dell’importanza dell’architettura dell’informazione e della necessità di divulgare il valore della disciplina ad un numero maggiore di persone possibile, si è alzata una domanda che ci ha un po’ ammutoliti tutti.
Ma prima di arrivare alla domanda scomoda voglio fare una premessa.
Il valore dell’architettura dell’informazione
Così come ho detto pubblicamente, “il valore dell’architettura dell’informazione è chiaro a chiunque pratichi la disciplina”.
Se un professionista pratica una qualunque disciplina vuol dire che ne riconosce il valore, ne vede tutte le sue potenzialità, crede che quel che fa abbia uno scopo, abbia una sua utilità, un senso.
Il problema nasce quando devi trasmettere questo valore a chi è fuori la disciplina.
L’architettura dell’informazione interesserebbe ai lettori di un giornale? Potrebbe interessare, come si diceva in un vecchio film di Nanni Moretti, ad “un bracciante lucano, un pastore abbruzzese, una casalinga di Treviso? Pensi che possano essere un gran ché interessati”?
Utenti e imprenditori
Forse, la risposta più sincera è: “No. Non interessa”. Perché dovrebbe?
Un lettore digitale, però, dovrebbe essere interessato al fatto che una pagina sia chiara, che permetta di capire bene di cosa si parla, in un determinato contesto, e trasmettere il significato trasmesso da un sito. Dunque, non dovrebbe sapere cos’è l’User Experience o cosa sia l’architettura dell’informazione, ma dovrebbe (ri)chiedere che in un progetto digitale ci sia sempre un architetto dell’informazione, che permetta tutto questo..
Così come dovrebbe interessare chiunque volesse costruire qualcosa nel digitale o con il digitale, come gli imprenditori. L’organizzazione delle proprie informazioni dovrebbe essere alla base di un business che vuole crescere sul web, senza subire troppo le decisioni di un algoritmo.
Il bisogno di comunità
Viviamo un po’ tutti (noi architetti) la frustrazione di avere per le mani un bene prezioso, ma di cui pochi sanno approfittare. E affoghiamo questa frustrazione nel bisogno di comunità che appare tanto preziosa nel valore quanto piccola nei numeri.
Una domanda scomoda
Ed è qui che si innesta la domanda scomoda.
“Ma che ce ne viene a noi di divulgare l’architettura dell’informazione?”
Nessuno si aspettava questa domanda, specialmente in quel contesto. Si parlava di valore, in una delle poche occasioni dove si soddisfaceva il senso di comunità e la voglia di condivisione del sapere. Noi che predichiamo la radical collaboration e sempre filosofeggianti, non ci aspettavamo una domanda così utilitaristica.
Qualcuno ha abbozzato una risposta: forse per ampliare il mercato!? Subito sintetizzato “per monetizzare!?”. Il che ci sta pure. Tanto più ne parliamo, tanto più si troverà lavoro per le figure professionali che si propongono o che si formano presso il master.
Ma credo che tutti ci siamo resi conto, nel momento in cui l’abbiamo pensato, che è troppo semplicistico parlare di monetizzazione per una disciplina così giovane come l’architettura dell’informazione. Non si diventa architetti dell’informazione per diventare ricchi.
Purtroppo il discorso si è dovuto chiudere per motivi di tempo e di organizzazione. La domanda è arrivata dopo un lungo dialogo. Non era questa la domanda a cui doveva rispondere la tavola rotonda. Ed è stato un peccato interrompere quando il dibattito stava crescendo.
Altri, infatti, stavano iniziando a ragionare sul fatto che c’è sempre stato un gruppo di persone, (dico io) “progressiste”, che hanno portato idee nuove. Basti pensare a come erano fatti i siti web 10, 15 anni fa e a quello che sono oggi.
A pochi interessa l’architettura dell’informazione
Voglio utilizzare una metafora con l’energia elettrica.
Come dicevo a pochi interessa come si costruisce una lampadina, così come a pochi interessa sapere come si costruisce un sistema elettrico. Nessuno pensa che dobbiamo essere dei costruttori di lampadine o degli elettricisti per usufruire della luce elettrica. Però è utile a tutti sapere che esiste chi costruisce lampadine, che ci sia chi studia la tecnologia. Siamo felici di sapere che, grazie a queste persone, la tecnologia si evolve e ci offre nuove forme di risparmio e che, se il sistema si rompe, ci siano professionisti che rimettono a posto tutto.
Così come per l’energia elettrica, dunque, anche per l’architettura dell’informazione. Non importa che si sappiano linguaggi o metodi di progettazione di un sito, ma è utile che tutti sappiano e debbono sapere che esiste una disciplina che organizza al meglio le informazioni, che è nata per rendere più chiaro un sito web, una pagina o un argomento, per trasmettere meglio il significato di ciò che si cerca.
Felice di parlare di architettura dell’informazione
Devo dire che personalmente sono felice di parlare di architettura dell’informazione, della disciplina che ho scelto come professione.
Ricordo ancora la meraviglia provata quando ho ascoltato (per la prima volta) chi organizzava le informazioni in un sito, sapendo perfettamente perché li organizzava in un determinato modo. Non perché altri siti facevano così, non perché dall’alto così era stato deciso. Ma perché le persone in quel modo trovavano quello che cercavano e ne uscivano con una esperienza positiva.
E ricordo l’entusiasmo di quando ho raccontato di cos’era l’architettura dell’informazione, lo stupore di sapere che c’erano altri, simili a me, che si chiedevano il perché di certe scelte, che andavano a cercare cosa ci stava dietro ad una scelta, che indagava la struttura di una “esperienza”. Ed è con quell’entusiasmo che continuo ancora oggi a scrivere sul blog, a preparare corsi di progettazione, nella speranza e convinzione che altri simili non aspettano altro che meravigliarsi con me.
Certo, ricordo anche la delusione di chi mi guardava come un ingenuo. E ingenuo lo ero. In effetti, allora, non mi rendevo conto che parlavo con chi faceva le cose perché “così si è sempre fatto!”. Altro che innovazione, altro che entusiasmo.
Però sono certo che anche allora non fu vano parlare e spiegare.
Architettura dell’informazione per la progettazione di chatbot
Così come sono sempre più convinto che chatbot e interfacce conversazionali abbiamo bisogno di architetti dell’informazione. Il mio corso è costruito anche per cambiare le cose, per ragionare nel modo più coerente sulle sfide di oggi.
C’è chi parte dagli strumenti, io invito con forza a partire dalla progettazione.
Non solo perché me ne viene qualcosa a me, il lavoro si paga, non solo perché tu dovresti sapere di chatbot o su come funziona internamente un chatbot, ma anche perché sarebbe bello sapere che, la prossima volta che una azienda ti propone di usare un chatbot per un servizio, tu, tu lettore, tu utente, tu persona, ne sia felice e tu abbia le risposte che ti aspettavi e meritavi di avere.