Il femminismo mi riguarda in quanto uomo, in quanto maschio, come riguarda tutti coloro che stanno leggendo queste mie parole. Sarebbe meglio dire, infatti, che i femminismi ci riguardano.

Tutti, infatti, dovremmo pensare (ed essere consapevoli) a prescindere da come la si pensa, che il femminismo sia una battaglia che riguarda chiunque si senta parte di una società, in quanto essere umano, in quanto essere sociale. Dico e penso questo perché non si tratta di movimenti che parlano solo di donne, ma movimenti che parlano di Giustizia, Equità, Libertà. E chiunque abbia a cuore questi valori non dovrebbe restarne fuori.

Pensare che il femminismo sia solo una lotta ristretta, una questione di genere esclusiva, una rivendicazione settoriale. Tra l’altro riservata a una nicchia che si può permettere di ribellarsi, credo sia un fraintendimento diffuso.

Io, invece, ho iniziato a vedere il femminismo, contemporaneo, pur non avendo una conoscenza storica approfondita del fenomeno, come una battaglia per tutti, perché combatte contro le strutture di potere che schiacciano, escludono e marginalizzano.

E tutti, nella vita, possiamo trovarci dalla parte della minoranza. Tutti, ad un certo punto della vita, saremo soli, desiderosi di una comunità.

Essere minoranza è una condizione che può toccare chiunque

Non serve appartenere ad un gruppo storicamente oppresso per capire cosa significhi essere isolati, discriminati o non presi sul serio. Basta trovarsi, anche solo per un momento, nella posizione di chi è fuori dalla maggioranza dominante.

Ci si può ritrovare minoranza per una questione politica, culturale, sociale. Può accadere per una scelta etica, per un’identità, per il semplice fatto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. È un’esperienza che, in forme diverse, tocca chiunque, e che spesso non lascia indifferenti.

Quando ci si trova in minoranza, si comprende quanto sia importante che esista qualcuno pronto a difendere il principio stesso della tutela di chi ha meno voce.

E questo è esattamente ciò che fa il femminismo: combatte per chi viene zittito, per chi è considerato meno credibile, per chi viene schiacciato da una struttura ingiusta. E non lo fa solo per le donne, ma per tutti coloro che, in un modo o nell’altro, si trovano ai margini.

Le minoranze linguistiche e il diritto alla parola

Una delle forme più invisibili di discriminazione riguarda le minoranze linguistiche. Parlare una lingua minoritaria significa spesso essere considerati cittadini di serie B, essere percepiti come “strani”, “provinciali” o “arretrati”.

La lingua, che dovrebbe essere un ponte, diventa una barriera sociale. Accade ai popoli indigeni il cui idioma viene sistematicamente cancellato, così come accade alle comunità che vedono la loro lingua relegata a dialetto. Ogni giorno accade ai migranti che, in ogni parte del mondo, anche se perfettamente competenti nella lingua dominante, vengono giudicati per un accento o una struttura grammaticale diversa. E accade ai tanti giovani, studenti e lavoratori, all’estero, anche se competenti nei loro studi e nelle loro mansioni, vengono indicati per un gesto in più e un tono di voce più alto.

Il femminismo ha molto a che fare con questo perché nasce proprio come battaglia per il diritto alla parola. E la battaglia per la parità comincia dal linguaggio.

Per secoli le donne sono state escluse dallo spazio pubblico, zittite, ridicolizzate quando esprimevano opinioni. Ancora oggi, se una donna si esprime con fermezza, rischia di essere etichettata come aggressiva o arrogante, mentre un uomo con lo stesso tono viene considerato determinato e autorevole.

Non è una questione di sensibilità, ma di distribuzione del potere: chi controlla la lingua, controlla la realtà.

Il femminismo e la linguistica: il potere delle parole

La linguistica ci insegna che il modo in cui parliamo modella il modo in cui pensiamo. Il femminismo ci insegna che il modo in cui pensiamo modella il modo in cui trattiamo gli altri. Se una lingua non ha parole per nominare un’esperienza, è come se quell’esperienza non esistesse. Per questo il femminismo ha sempre avuto un rapporto profondo con il linguaggio: perché nominare le cose è il primo passo per cambiarle.

Il dibattito sulle parole non è mai solo simbolico. Se si parla di “femminicidio” e non di “omicidio passionale”, non è per un capriccio terminologico, ma perché la prima parola descrive un fenomeno specifico, mentre la seconda lo nasconde dietro una narrazione ingannevole. Se si smette di dire che un uomo “aiuta” in casa e si inizia a dire che fa la sua parte, non è una questione di politically correct, ma di verità.

Il linguaggio costruisce la realtà, e chi lotta per cambiare il linguaggio non sta cercando di censurare, ma di rendere visibile qualcosa che prima era nascosto. Così come chi cancella le parole con un digital genocide sta impedendo ad intere fasce di popolazione di presentare i propri problemi e richiedere diritti.

Il femminismo non è una guerra contro gli uomini, ma contro le disuguaglianze

Forse, si tratta di una sensazione, non ho i dati, ma un errore comune è credere che il femminismo sia un movimento “contro gli uomini”. Il femminismo, come altri movimenti per il diritto, non toglie diritti, li allarga. Non costruisce muri, li abbatte. Non è una lotta per ottenere privilegi, ma per eliminare discriminazioni.

E non è un caso che le battaglie femministe abbiano aperto la strada ad altre conquiste sociali: diritti civili, tutela del lavoro, lotta alle discriminazioni di ogni tipo. Perché quando si combatte per la giustizia in un ambito, si finisce per migliorarne tanti altri.

Un po’ di apertura mentale farebbe bene a tutti

Viviamo in tempi in cui il mondo sembra dividersi in fazioni, le comunità sono in declino, eppure la realtà è più complessa. Non è una guerra tra uomini e donne, tra progressisti e conservatori, tra chi ha torto e chi ha ragione su tutto.

Vogliamo una società più giusta, più inclusiva, più capace di riconoscere i diritti di tutti? Se la risposta è sì, allora dovremmo smettere di vedere il femminismo come “una cosa da donne” e iniziare a vederlo per quello che è: una lotta che ci riguarda tutti.

Perché oggi potresti non sentirti parte di una minoranza, ma domani potresti esserlo. E se nessuno avrà difeso il principio che i diritti si proteggono sempre – anche quando non ci riguardano direttamente – allora nessuno sarà lì a difendere i tuoi.

Pensaci!

E se vuoi approfondire il tema segui il mio progetto: “Il potere delle parole: linguistica e società