Essere un caregiver significa attraversare un’esperienza totalizzante, un viaggio senza mappe dove la vita di chi si prende cura si intreccia irrimediabilmente con quella del malato.

Non è solo assistenza, non è solo dedizione: è un’esistenza sospesa tra responsabilità e amore, tra il desiderio di dare sollievo e la consapevolezza di non poter fermare il tempo.

È un ruolo che si assume spesso senza scelta, guidati da un senso di dovere e affetto che supera ogni fatica, ogni ostacolo. Si impara a essere presenti in modi che prima sembravano impensabili, a riconoscere i bisogni non detti, a interpretare segnali silenziosi che parlano più di mille parole.

Festival di Sanremo 2025

Simone Cristicchi ha presentato al Festival di Sanremo 2025 un brano profondamente personale, ispirato alla storia di sua madre, Luciana, colpita nel 2012 da un’emorragia cerebrale che le ha lasciato danni irreversibili.

La canzone è una lettera in cui l’artista racconta il cambiamento di chi, invecchiando, ritorna un po’ bambino.

Il tema della fragilità umana è affrontato senza retorica: un arrangiamento essenziale, solo pianoforte e orchestra, capace di evocare atmosfere sospese tra passato e presente.

Simone Cristicchi, Quando sarai piccola: il testo

Quando sarai piccola ti aiuterò a capire chi sei
Ti starò vicino come non ho fatto mai
Rallenteremo il passo se camminerò veloce
Parlerò al posto tuo se ti si ferma la voce.

Giocheremo a ricordare quanti figli hai
Che sei nata il 20 marzo del ’46
Se ti chiederai il perché di quell’anello al dito
Ti dirò di mio padre ovvero tuo marito.

Ti insegnerò a stare in piedi da sola, a ritrovare la strada di casa
Ti ripeterò il mio nome mille volte perché tanto te lo scorderai.

E è ancora un altro giorno insieme a te
Per restituirti tutto quell’amore che mi hai dato
E sorridere del tempo che non sembra mai passato.

Quando sarai piccola mi insegnerai davvero chi sono
A capire che tuo figlio è diventato un uomo
Quando ti prenderò in braccio
E sembrerai leggera come una bambina sopra un’altalena.

Preparerò da mangiare per cena, io che so fare il caffè a malapena
Ti ripeterò il tuo nome mille volte fino a quando lo ricorderai.

E è ancora un altro giorno insieme a te
Per restituirti tutto, tutto il bene che mi hai dato
E sconfiggere anche il tempo che per noi non è passato.

Ci sono cose che non puoi cancellare
Ci sono abbracci che non devi sprecare
Ci sono sguardi pieni di silenzio
Che non sai descrivere con le parole
C’è quella rabbia di vederti cambiare
E la fatica di doverlo accettare
Ci sono pagine di vita, pezzi di memoria
Che non so dimenticare.

E è ancora un altro giorno insieme a te
Per restituirti tutta questa vita che mi hai dato
E sorridere del tempo e di come ci ha cambiato.

Quando sarai piccola ti stringerò talmente forte
Che non avrai paura nemmeno della morte
Tu mi darai la tua mano, io un bacio sulla fronte
Adesso è tardi, fai la brava.
Buonanotte!

Sanremo 2025, Cristicchi:

“Mi fa male chi mi dà del furbo. Brano piace a Meloni? Anche a Schlein”
“Non si è parlato dell’importanza della canzone ma si è voluto cercare qualche strana strategia che io avrei usato con questo brano per far piangere la gente. Ma se avessi voluto fare il furbo avrei fatto tutt’altro percorso e arrangiamento”. Simone Cristicchi replica così a chi ha criticato “Quando sarai piccola”, in cui ha messo al centro sua madre, colpita da Alzheimer. “Quella canzone non è una cartella clinica, ma una cartella spirituale, parla di amore dato e resistituito”, puntualizza l’artista. Quanto all’endorcement di Giorgia Meloni, tiene a precisare che è piaciuta anche alla segretaria del Pd Elly Schlein.

Parlare della malattia

Parlare della malattia significa toccare qualcosa di intimo e doloroso, qualcosa che chi non ha vissuto da vicino fatica a comprendere davvero.

Il tema è importante, necessario direi, perché riguarda milioni di persone e famiglie a volte travolte all’improvviso, come fosse uno tsunami. Ma non sempre il modo in cui viene raccontato riesce a restituire la verità di ciò che significa vivere accanto a qualcuno che lentamente perde sé stesso. Perché la malattia non è solo dolore e sofferenza per chi ne è colpito, ma è anche il peso incommensurabile che ricade su chi resta accanto, su chi ogni giorno combatte contro il tempo, contro la stanchezza, contro la sensazione costante di impotenza.

Essere un caregiver

Essere un caregiver significa azzerarsi.

Non esiste altro pensiero che il malato, non esiste altro obiettivo che cercare di farlo stare bene, anche quando bene non si può più stare.

Personalmente durante la mia vita da caregiver, ho studiato, per amore e per necessità la malattia del morbo di Parkinson. Ho raccolto parola per parola tutto ciò che dicevano i medici, ho letto, ho cercato, ho osservato ogni minimo cambiamento, ogni segnale, ogni nuovo sintomo. In famiglia siamo diventati esperti della malattia, non per vocazione, ma perché non c’era scelta. Ogni farmaco, ogni reazione, ogni possibilità di miglioramento o peggioramento ci era chiara, più chiara di quanto potesse esserlo ai medici, che avevano il tempo di una visita per comprendere ciò che noi vedevamo accadere giorno dopo giorno.

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Dare la vita

Si dice che in amore si possa dare la vita per qualcuno. Essere un caregiver è proprio questo: è consegnare la propria esistenza a un’altra persona, senza riserve, senza pause.

Ogni pensiero, ogni energia è concentrata su una sola cosa. E quando non c’è più niente da fare, quando la malattia mostra tutta la sua brutalità e ti strappa via ogni illusione, allora si prova a sperare in qualcosa che non esiste. Si cercano risposte da altri medici, si viaggia, si tenta. Ma alla fine, tutti ti dicono la stessa cosa: resta a casa, resta vicino al tuo ospedale, perché se succede qualcosa sarà lì che dovrai correre. E allora si resta, in attesa. Per mesi, per anni, per un tempo indefinito che si dilata e si contrae senza logica.

Nel frattempo, la vita si trasforma in un ciclo continuo di ospedali, burocrazia, farmacie, visite mediche. Non si vive più, si sopravvive. È un’esperienza che nessuno racconta per quello che è davvero, perché il dolore fa paura, perché la malattia allontana.

Ho visto e vedo chi prova a mostrare il lato raccontabile della malattia, chi parla di caregiver attraverso immagini edulcorate, attraverso una narrazione che non rispecchia la realtà di chi, ogni giorno, si trova a combattere contro qualcosa di più grande di lui.

Vedo la sofferenza, l’isolamento, la disperazione. Ho visto famiglie che, senza cultura, analfabete, senza risorse, senza strumenti, si perdono completamente in questo vortice.

Imparare a convivere con la paura

Essere caregiver non è solo assistere, è imparare a convivere con la paura costante. Si tratta di diventare traduttori del linguaggio medico, mediatori con un sistema sanitario spesso lento e macchinoso, improvvisarsi infermieri, fisioterapisti, psicologi, senza avere la preparazione per farlo. Forse significa proprio mettere la persona al centro.

È comprendere quando la persona amata non può più dire quello che prova, leggere i segnali di un corpo che cambia, accettare che le proprie forze non saranno mai abbastanza. Significa vivere in una condizione di allerta continua, un’esistenza scandita da orari di somministrazione dei farmaci, da attese in sale d’aspetto, da notti insonni.

Ma è anche qualcosa di più profondo, un legame che si trasforma, una forma d’amore che trascende qualsiasi altra esperienza. È un dialogo silenzioso fatto di gesti, di mani che si stringono, di sguardi che chiedono aiuto senza parole.

È accettare il proprio limite senza sentirsi in colpa, imparare a chiedere aiuto quando si può, riconoscere che l’eroismo non è resistere sempre, ma sapere quando fermarsi, quando affidarsi.

Non trovo un modo giusto per parlarne

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E allora forse, è giusto parlare di queste cose, portarle a Sanremo, sui social, ovunque. Anche nel mio blog,

Ma non trovo un modo giusto per parlarne, per davvero, senza sconti, senza filtri, senza il privilegio di chi ha le spalle coperte.

La malattia non è solo una storia da raccontare, è una realtà che schiaccia, che divora, che lascia cicatrici profonde.

E chi resta, chi ha vissuto anni sospeso in questo limbo, sa che la vita, dopo, non è più la stessa.