I cambiamenti tecnologici, lo sappiamo, quasi sempre, portano a profondi cambiamenti professionali e di mercato.
Ci sono momenti, nella storia dell’essere umano, in cui tutto sembra cristallizzato, al riparo da cambiamenti, mutamenti e rivoluzioni. Eppure, è sufficiente uno scatto tecnologico per modificare abitudini e mestieri, ridisegnando intere filiere economiche. E la cosa che lascia di stucco è che spesso, apparentemente, accade tutto nell’arco di pochissimo tempo.
Mi viene da pensare (e verranno in mente anche a voi) a cose che sono accadute non tanti anni fa, anche se sembrano trascorsi secoli.
Si parla di intelligenza artificiale dal 1955, eppure la distribuzione alle masse è avvenuta alcuni mesi fa e già sta modificando tutto il web e influenza tutto il mondo connesso.
Uno sguardo al passato
Basta guardare al passato per comprendere come queste trasformazioni, i cambiamenti tecnologici, appunto, siano sempre esistiti. Dai primi macchinari che sostituirono il lavoro manuale nelle fabbriche fino all’elettronica e alla robotica che hanno annullato i confini tra fisico e digitale. Così come i dispositivi digitali che ci hanno lanciato nell’Onlife.
Oggi viviamo un’epoca in cui ogni cambiamento si manifesta con grande rapidità da lasciarci appena il tempo di capire cosa stia accadendo. Siamo costretti a rinnovare, di nuovo, il nostro modo di essere, di vivere e di lavorare.
Perché il problema resta sempre quello. Se il proprio settore lavorativo si innova, se la propria professione si trasforma, non sempre il professionista, il lavoratore ha le capacità di innovarsi.
Faccio un esempio. Se, fino a qualche anno fa, avevamo meccanici di grande esperienza, capaci di smontare e rimontare una macchina, non è detto che lo stesso meccanico sia oggi in grado di smontare e rimontare una macchina elettrica o programmare la centralina computerizzata. E il problema non è tanto di capacità professionali. I fattori possono essere tanti e diversi. Il professionista potrebbe essere avanti nell’età, con prospettiva di fine lavoro, la propria istruzione magari non è all’altezza delle nuove tecnologie, la sua formazione culturale non gli permette di rinnovarsi, di guardare al futuro e tutte le ragioni che ciascun professionista ha.
Qualche esempio risaputo
Uno degli esempi più lampanti e risaputo, in cui i cambiamenti tecnologici hanno inferto un duro colpo è certamente il mondo della fotografia analogica e l’avvento del digitale. Lo ricordo da appassionato di fotografia e paradossalmente lo vivo ancora adesso quando parlo con i nostalgici di quel mondo.
Il passaggio dall’analogico alle reflex digitali, dal rullino alla scheda SD. Fino agli anni ’80 sembrava impossibile che i rullini (che tra l’altro stanno tornando di moda), la carta fotografica, gli acidi di sviluppo, e tutti i laboratori, con tutte le professionalità che giravano intorno, sarebbero stati spazzati via in un tempo breve. Eppure è accaduto.
Grandi marchi, un tempo colossi assoluti, si sono ritrovati ai margini. L’innovazione ha corso più veloce di loro. E mi sono sempre chiesto come hanno fatto a non vedere questo cambiamento. Come è stato possibile che non si siano resi conto che il loro mondo era finito? Eppure avevano avuto le informazioni in anteprima, prima di tutti gli altri.
Il susseguirsi di scoperte, di brevetti, di nuove possibilità, ha stravolto i processi produttivi e, più in profondità, è cambiato il nostro rapporto con la fotografia stessa, con il nostro immaginario.
Quello che per decenni era stato un gesto ponderato, scegliere con cura la posa, il soggetto, l’inquadratura, perché ogni scatto aveva un “costo” (e aveva un costo elevato), è diventato un atto quotidiano e disinvolto, a costo “zero”. Da un giorno all’altro, un intero segmento di mercato si è contratto, quasi scomparso, lasciando lavoratori e appassionati disorientati.
L’avvento degli smartphone
Poi è iniziata l’era dei telefonini con videocamera per le foto e poi per i video.
Quel momento ha segnato la nostra epoca. Il cambiamento non è stato soltanto tecnologico, ma direi culturale: il possedere un dispositivo in grado di realizzare scatti di qualità, in qualsiasi istante, ha reso la fotografia un linguaggio diffuso quanto la parola.
Oggi chiunque può improvvisarsi reporter o artista, condividendo in tempo reale momenti, storie e sensazioni.
Così, mentre i mercati dell’industria fotografica si ridefinivano, i professionisti hanno cominciato a chiedersi se avesse ancora senso investire in attrezzature costose, in studi, in sistemi di illuminazione sofisticati, quando i social network traboccavano e traboccano di immagini “amatoriali”, alcune di qualità più che apprezzabile. Se avesse senso fotografare.
La disillusione dei fotografi professionisti
Lo scenario che ne è derivato, almeno per molti fotografi, è stato di disorientamento. In molti hanno lasciato e lasciano il settore lavorativo.
Alcuni hanno smesso di fare foto in modo quasi totale, volgendo lo sguardo ai video, fotografando di rado, ma senza entusiasmi. Altri si sono riposizionati, la maggior parte ha tentato di reinventarsi, scoprendo nicchie inesplorate o riprendendo in mano l’arte dello storytelling, valorizzando ciò che la massa scatta ma non sa raccontare.
Osservazioni sulla crisi del fotogiornalismo
Ne avevo già parlato rispetto al rapporto tra foto giornalismo e architettura dell’informazione.
Questo cambiamento, che viene definito il piacere perduto di fotografare, ha portato molti fotografi legati all’informazione a cercare nuovi contesti di lavoro e comunicazione, come il cinema o il documentario. O ancora, si arriva a nuovi usi della fotocamera per creare immagini che richiedono spiegazioni verbali complesse, immagini per lo più destinate a libri costosi e a circuiti espositivi elitari.
E’ andato perduto con questo passaggio, il piacere ludico della pratica fotografica con la pellicola, che imponeva un uso limitato e preciso dei rullini da 24 o al massimo da 36 scatti. Un limite che richiedeva abilità particolari e un’attesa paziente, celebrata nei fotografi come Henri Cartier-Bresson. La crisi del fotogiornalismo coincide con l’affermarsi di un paradigma che persegue la dismisura e la velocità, con una produzione massiccia di immagini che spesso manca del piacere e della lealtà del momento decisivo.
Queste abilità, come quella di saper scattare con precisione e parsimonia con la pellicola, sono ora rese obsolete dall’industria digitale, proprio come tante altre abilità artigianali sono state superate dall’avanzamento tecnologico.
Cambiamenti anche per l’architettura dell’informazione
La stessa dinamica di smarrimento e di necessità di reinvenzione oggi, forse, si affaccia in ambiti che, fino a ieri, parevano ben solidi e consolidati.
Penso sempre all’architettura dell’informazione, disciplina nata per dare senso e struttura ai contenuti, che si sta gradualmente trasformando in una “architettura dell’intelligenza”.
Non si tratta più soltanto di organizzare testi, immagini, banche dati in maniera chiara e coerente di un singolo sito web. Mentre i siti web vengono già preconfezionati dalle intelligenze artificiali, il passo successivo coinvolge la capacità di insegnare alle macchine a comprendere questi contenuti, ad analizzarli e a proporne un uso creativo.
In un certo senso, assistiamo alla nascita di un nuovo mestiere: chi un tempo si dedicava alla categorizzazione e all’usabilità deve ora imparare a dialogare con le intelligenze artificiali in continua evoluzione, a strutturare percorsi di apprendimento e a monitorarne gli esiti in tempo reale.
Ma non è detto che tutti gli architetti dell’informazione, specialmente chi vive in provincia, sia in grado di occuparsi di intelligenza artificiale o che persino sia chiamato ad occuparsene.
Dentro ogni crisi una opportunità
I cambiamenti tecnologici, insomma, stanno impattando su molti campi. Anche quelli che appaiono lontani dai cambiamenti tecnologici veri e propri. Esattamente come accaduto con la fotografia, chi non intende adattarsi a questa svolta rischia di rimanere indietro, magari aggrappandosi a competenze che, benché valide, non bastano più a vivere del proprio lavoro.
Eppure, dentro a ogni crisi, a ogni incertezza, si nasconde un’opportunità preziosa.
Se il mondo si muove rapidamente verso nuove forme di conoscenza e di produzione, gli spazi per chi sa rimettersi in gioco diventano più ampi.
È vero, riguardo al mondo fotografico, buona parte della fotografia è stata democratizzata, ma altrettanto vero è che i professionisti più brillanti hanno saputo distinguersi, puntando su qualità, autenticità e ricerca di narrazioni personali, trovando sbocchi inattesi.
Lo stesso discorso dovrebbe valere per chi oggi si dedica a riorganizzare la conoscenza. Non è soltanto questione di imparare linguaggi di programmazione o tenersi al passo con gli algoritmi; si tratta di esplorare forme di lavoro in cui la competenza umana sia al servizio della tecnologia, così da creare sistemi più raffinati, etici e aderenti alle nostre necessità.
Coltivare la consapevolezza
Ciò che rende questo momento storico così affascinante – e al contempo impegnativo – è proprio la velocità con cui le trasformazioni si succedono. Attendere passivamente che il cambiamento si compia rischia di lasciarci indietro. D’altra parte, anche il solo cercare di inseguire ogni novità può risultare disperante. Io l’ho sempre detto, forse troppo sommessamente. Ma, forse, l’approccio migliore consiste nel coltivare la consapevolezza della direzione verso cui ci stiamo muovendo, cercando di intuire prima degli altri come certi fenomeni possano evolvere, per prepararsi a intercettarli.
È possibile sviluppare la capacità di “fiutare” tendenze, di condividere esperienze, di affinare le proprie abilità trasversali, senza timore di sperimentare.
La nostra irriducibile componente umana
Nell’era in cui tutto sembra dover essere automatizzato, è la nostra irriducibile componente umana a fare la differenza. Abbiamo la creatività, la curiosità e l’empatia: possiamo portare un punto di vista critico e un’esperienza personale che le macchine, per quanto sofisticate, non possiedono.
Se riusciamo a far convivere la nostra capacità di narrare, progettare e innovare con gli strumenti tecnologici a disposizione, allora saremo in grado di trasformare la crisi in un’occasione di crescita.
Potremo traghettare la nostra passione (che si tratti di fotografia o di architettura dell’intelligenza) verso nuovi linguaggi e nuove prospettive, aprendo campi di applicazione prima inesistenti.
La lezione più grande che ci viene dal passato è questa: nulla rimane identico per sempre, e non tutti i cambiamenti e i cambiamenti tecnologici, si trasformano in catastrofi.
Formazione continua
Chi mantiene uno spirito aperto alla collaborazione e all’apprendimento continuo ha, paradossalmente, molta più stabilità di chi difende strenuamente uno status quo destinato a sgretolarsi.
Lo spazio per reinventarsi è ampio e va colto con fiducia, passione e lucidità. Non servono ricette magiche, ma un’osservazione attenta e la disponibilità a mettersi in discussione, perché nel mutamento ritroviamo ogni volta la nostra capacità di adattarci e creare.
E in questo modo, anche in epoca di rivoluzioni tecnologiche, siamo ancora noi a dare forma al futuro.