Sapete cos’è “UXThis” L’occhio del designer? Si tratta del nuovo blog di Marco Buonvino e Luana Donetti che si trova su Medium.

Loro lo presentano così.

UXthis! è una raccolta di esempi concreti e quotidiani di prodotti e servizi, il cui disegno dell’esperienza utente è affetto da qualche problema.

Lo scopo di UXthis! è utilizzare esempi reali per invitare i lettori a riflettere in modo critico sul concetto di esperienza utente e sul ruolo del design per creare un’interazione usabile, semplice e memorabile.

UXThis! Da cosa nasce ?

UXthis! nasce da un’idea di Marco Buonvino (marcobuonvino.it) e Luana Donetti che, durante la preparazione dell’esame di interazione uomo -macchina nel corso di Teoria e Tecnologia della Comunicazione dell’Università di Milano-Bicocca, si sono resi conto che non avrebbero mai più visto il mondo (comprese le maniglie) allo stesso modo.
La precedente versione con i vecchi articoli di UXthis! sono reperibili su Tumblr.

Leggendo queste righe il progetto mi ha molto incuriosito, iniziando a leggere i primi articoli. Poi ho ascoltato Marco Buonvino nel podcast di Nois3 ed ho voluto intervistarlo.

Ovviamente in compagnia di Luana Donetti, coautrice di UXThis che vi consiglio di seguire. Buona lettura!

Intervista doppia a Marco Buonvino e Luana Donetti su UXThis

La sensazioni di molte persone che non riescono a comprendere cosa sia l’architettura dell’informazione o l’ux design è quella di un gruppo di persone che non vuole farsi capire. Tu sostieni che parte del lavoro è anche raccontarsi. Qual è il vostro parere?

Marco – Io penso che i designer, in particolare quelli che lavorano nell’ambito digitale, siano molto bravi a discutere delle diverse branche della disciplina nella community ristretta fatta di soli designer. Esistono davvero tanti articoli che cercano descrivere le differenze fra IA, IxD, UX, UI, SxD e così via.

Molti designer si definiscono unicorni, ma sappiamo che gli unicorni non esistono (mi dispiace per chi ci credeva!). Io sono dell’idea che un designer debba inserirsi in un contesto concreto e reale, portando valore con le sue competenze e la sua attitudine alla progettazione.

Questo significa che il designer deve saper collaborare con altre persone provenienti da domini differenti, ad esempio business oppure tecnologia. Se invece non è in grado di far capire il proprio valore, allora ha un grande problema perché resterà una creatura eterea come, appunto, un unicorno.

Luana – penso che discussioni ed elucubrazioni in gergo abbiano senso entro le community, numerose, dove amiamo spaccare il capello in quattro. La filosofia UX serve, ma ammetto che alle volte ho la sensazione se ne faccia abuso per il gusto di “mostrare”, o la si tenga volutamente velata di mistero per il timore di essere derubati della propria competenza.

La nostra filosofia va spiegata senza essere troppo gelosi della propria conoscenza: il nostro scopo dovrebbe essere quello di rendere la vita più semplice e risolvere problemi. Saper diffondere, comunicare e insegnare il nostro approccio deve essere una nostra responsabilità.

Quali metodologie applicate nel vostro lavoro quotidiano. Ci sono metodologie che ritenete più potenti di altre? O che preferisci?

Marco – Esistono numerose metodologie di design, tutte valide perché portano l’utente al centro della progettazione. È altrettanto vero però che nessuna metodologia si può adattare completamente a un contesto lavorativo specifico: molte volte è necessario modellare gli strumenti e i processi che leggiamo sui manuali per adattarsi ai diversi problemi che incontriamo ogni giorno.

Io ho trovato utile provare a scomporre le metodologie in valori basilari, in modo da applicarli nei progetti quotidiani: early testing, iterazioni di divergenza e convergenza, rapid prototyping, co-progettazione… Al contrario, penso invece che un approccio troppo rigido o dogmatico non possa far altro che far sorgere resistenze all’adozione all’interno di gruppi eterogenei di professionisti.

A mio avviso, un bravo professionista deve conoscere bene le regole del mestiere e sapere quando rispettarle, infrangerle o aggirarle.

Luana – la metodologia più potente è porre l’utente, o meglio umano, al centro, quindi lo human centered design. Sembra banale parlarne ma non lo è, vedo ancora molti progetti e lavori dove le tempistiche tiranne sono limitanti e scoraggiano anche gli UXers più incalliti.

A farne le spese sono la parte di ricerca (es. Interviste individuali) e la parte di test di usabilità, entrambi punti di contatto importanti con la persona destinataria del prodotto o servizio, e ben inseriti nel processo di design thinking. La ricerca è il pilastro portante su cui fondare tutto il resto della progettazione, e portarla avanti è sempre possibile, non sono necessari grandi numeri da manuale psicologico.

La cosa importante è essere capaci di ritagliare i metodi a seconda del contesto e del caso su cui si lavora. Conoscere le metodologie e i tool a memoria è inutile se poi li facciamo fruttare soltanto nel caso ideale.
Sul lavoro i casi ideali, da manuale, non esistono mai.

Ci sono sempre dei compromessi e dobbiamo essere pronti non a subirli, ma a trasformarli in qualcosa di fruttifero per tutti gli stakeholder. Purtroppo non tutti hanno le capacità o anche solo la voglia di fare questo sforzo; il prezzo da pagare, in questi casi, è l’isolamento, sia nelle attività che nella mentalità.

Quale parte del vostro lavoro vi piace e vi diverte maggiormente?

Marco – Adoro prototipare. In particolare nelle fasi iniziali di un progetto, quando ancora si lavora a un basso livello di fedeltà. Mi piace l’idea di sperimentare, confutando o validando idee diverse, per incontrare le necessità di quelle persone che abbiamo identificato attraverso la ricerca iniziale.

Mi sento realizzato quando, con uno sforzo comune, il team riesce a risolvere il problema di qualcuno con una soluzione sia innovativa che semplice ed efficace. Sogno sempre di esclamare orgoglioso: “Si. Può. Fare!”, come il Gene Wilder di Frankenstein jr!

Luana – Mi piacciono particolarmente tutte le attività UX dove posso empatizzare con le persone: ad esempio durante le interviste di ricerca, nei workshop di co-design e durante i test di usabilità.

È illuminante se si resta aperti al recepire necessità e problematiche, entrando davvero nel loro contesto e rendendoli partecipi nel trovare la soluzione più adatta. Mi diverte capire poi come risolvere quelle problematiche ad alto livello e nel dettaglio, muovendosi tra i grattacapi di interazioni e usabilità.

Quali sono i vostri strumenti di lavoro?

Marco – I miei strumenti preferiti sono quelli che mi permettono di illustrare rapidamente un’idea anziché descriverla a parole. Odio le email e gli allegati; preferisco gli strumenti di collaboration come gDrive, Office365 e Trello.

Ho un debole segreto per GitHub, pur non avendo quasi capacità di compilazione di codice (in realtà sono innamorato del più ampio approccio Git). Il più delle volte basta però carta e penna per dare a un’idea una forma concreta e quindi condivisibile. Il prossimo strumento su cui voglio dedicare le mie forze è lo storytelling.

Luana – carta e penna, OneNote per memo e appunti organizzati, Skype o MS Teams, Mural e Sketch. Zeplin e InVision per la condivisione. E si, anche i post-it.

C’è una marea di strumenti disponibili oggi, ed è facile e divertente restare aggiornati. La cosa importante, per me, è che lo strumento faciliti e non ostacoli.

Il nostro lavoro è perfezionare e veicolare il contenuto, il tramite deve restare un divertimento che non tolga spazio alla creatività, collborazione, co-creazione, né pretenda di diventare il protagonista assoluto; il “tool invisibile”, come il computer di Norman.

Nasce UXThis. Quale la sfida o obiettivo vi siete prefissati?

Marco – Ho sempre visto UXthis come un modo per divulgare una disciplina che si mette al servizio delle persone, ponendole al centro e tentando di risolvere i loro problemi. Io e Luana siamo rimasti affascinati dal lavoro di Donald Norman sugli oggetti quotidiani: era meraviglioso scoprire quanta complessità e ragionamento ci fossero dietro alla progettazione di una maniglia o di una semplice porta.

E se riuscissimo – ci siamo chiesti – a trasmettere questa sensazione anche ad altre persone, raccontando esempi concreti vicini alla quotidianità di tutti? Forse riusciremmo a dare un piccolo contributo alla crescita della disciplina.

Luana – L’idea era partita ai tempi dell’università, quando ancora io e Marco studiavamo in Bicocca. All’epoca eravamo super nutriti di teoria e volevamo allenarci a concretizzare quanto assimilavamo. UXThis nacque su Tumblr, e fu il nostro primo tentativo di avvicinare filosofia e concetti al mondo reale e renderlo comprensibile a tutti.

Condividendo non solo le prospettive su diverse problematiche quotidiane ma anche spiegandone i “trucchi”, possiamo svelarci a tutte le persone e rivelare l’importanza di quelle filosofie che a prima vista sembrano lontane.

Personalmente sono sempre felice che anche altri si lancino nella comunicazione dell’UX. Ciascuno di noi ha un suo punto di vista ed è entusiasmante. Nello stesso tempo vedo frammentarsi le forze di una comunità che non è comunque numerosa. Voi come la pensate?


Marco – Nella community dei designer italiani c’è indubbiamente molta passione. Non è facile però creare un’identità unica perché, nonostante professiamo il contrario, dobbiamo ancora imparare a collaborare mettendo da parte il nostro ego.

Crediamo nella causa del buon design; abbiamo lottato per avere un posto ai tavoli decisionali. Ora molte aziende si stanno rendendo conto che il design dell’esperienza dei propri Clienti nell’utilizzo di prodotti e servizi, digitali e fisici, porta benefici e allineamento all’interno dell’organizzazione.

Per questo, dobbiamo mettere da parte tutta la combattività accumulata nel tempo e lavorare come un’unica categoria professionale, unificando i nostri valori e imparando a difenderci a vicenda.

Luana – credo che in realtà la comunità sia molto numerosa, ma frammentata in termini di competenze e, quindi, di focus. Facile che si crei rumore di fondo, e che l’ago della bilancia venga fatto pendere ora da un lato ora da un altro.

Attenersi al metodo e porre la persona al centro è necessario per non perdere di vista la nostra missione, aldilà di tutte le discussioni lecite: risolvere problemi, creare soluzioni, migliorare la qualità di prodotti, servizi e, infine, della nostra vita. Penso che questa sfida riguardi tutti, non solo gli UX; l’obiettivo è comune, sono i punti di vista ad essere compositi e, per questo, arricchenti.

Le resistenze del sistema sono ovunque. Spesso ci si sente soli. Mi pare che voi avete trovato una soluzione a questo senso di solitudine.
Raccontate, se anche voi vi siete sentiti soli, di cosa vi siete serviti per superare questo stato di solitudine?

Marco – Se ti senti solo in un sistema pieno di resistenze, allora forse ti trovi nel punto in cui servi di più. Più volte nella mia carriera mi sono sentito così (e sono sicuro che ci saranno tante altre occasioni in futuro!). Se sei da solo, sei come il pazzo che nuota contro corrente.

C’è qualcosa di inebriante quando invece trovi un’altra persona che inizia a comportarsi in modo diverso, un po’ più come te. E poi un’altra, e così via. Inoltre, lo scambio continuo con altri professionisti al di fuori dell’organizzazione aiuta a mantenere un giusto distacco per riconoscere là dove portare il cambiamento.

Servono però dei “porti sicuri”, in cui potersi sentire come a casa: i miei sono stati in passato il Milan UX Book Club e ancora oggi Architecta.

Luana – penso che nella vita la solitudine si superi non solo cercando coloro che si trovano nella stessa condizione, ma aprendosi e dando fiducia anche a coloro che arrivano da situazioni diverse. Nel lavoro penso valga lo stesso: non ci si deve chiudere ma aprirsi a tutti i team e le professioni, accogliere e accettare posizioni diverse e facilitare condivisione e comunicazione.

Conosco colleghi che si sono chiusi, un po’ per fattore culturale e un po’ per personalità; ho provato loro a spiegare che con il sospetto e la sfiducia non si costruiscono i team, al contrario, si ricevono sospetto e sfiducia di rimando.

Non è sempre facile restare aperti. Interagire con le persone è più difficile che interagire con pessime interfacce; siamo volubili, suscettibili, sensibili ed emotivi. Il che però è ciò che ci differenzia dalle macchine, e in quanto umani ognuno ha sempre la sua fetta di responsabilità nell’approccio, a prescindere da quello che gli altri gli creano intorno.

Penso che noi UX Designer potremmo (o dovremmo?) avere una marcia in più su questo versante, perché il nostro lavoro si basa proprio sull’empatia e il coinvolgimento. Dobbiamo impegnarci per usare questa empatia non solo con gli utenti ma anche con gli altri membri del team. L’esempio parte da noi stessi.

Bisogna cambiare un’intera cultura per riuscire a fare bene il proprio lavoro! Da dove cominciare?

Marco – A mio avviso il cambiamento di una cultura nasce dall’impegno nella quotidianità. È come una dieta: se vuoi dimagrire, inizi a mangiare meglio e a muoverti di più. Il raggiungimento del risultato è solo una questione di pazienza.

Direi quindi che la cosa più importante da fare è mantenere fede alla propria identità professionale, composta dal buon metodo, da una forte etica e, in massima sintesi, da una risolutezza serena e cristallina.

Luana – come dicevo, nel nostro lavoro il processo di miglioramento o di creazione comincia con l’empatia per la persona che userà il nostro prodotto o servizio. Anche a livello macro funziona l’empatia e l’ascolto del contesto per poter introdurre nuovi metodi e aprire a nuova mentalità. Piccoli passi, fatti ogni giorno, molta pazienza. E tanta perseveranza.

Progettare per tutti, progettare per ciascuno …

Marco – Se fosse semplice, non esisterebbe la nostra professione di designer! Progettare avendo in mente le esigenze di ciascuno, ognuno con le proprie caratteristiche, attitudini e anche vincoli, ci aiuta ad arrivare a progettare soluzioni di ampia scala, che possano aiutare un pubblico vasto ed eterogeneo.

Non è un approccio semplice da adottare, specie se nell’organizzazione esiste già un approccio più vicino al marketing di vecchia concezione. In quei casi bisogna diventare portavoce dell’esistenza di qualcosa che va oltre i semplici numeri, ovvero le storie delle persone.

Per creare una relazione fra persone e brand, non è più possibile tralasciare emozioni e relazioni, che devono essere integrate nel set di dati alla base della creazione di personas e archetipi. Attenzione però che, come descrive Kim Goodwin e come enuncia Alan Cooper, le personas non sono una rappresentazione degli utenti, bensì dei loro obiettivi: la possibilità di includere diversi tipi di personas con diverse necessità aumenta la possibilità di progettare per ciascuno.

In questa direzione, un esempio molto interessante è il lavoro svolto da Gov.uk per includere utenti con diversi tipi di disabilità.

Luana – la più grande sfida! Spesso ci illudiamo di poter accontentare tutti, o ci sentiamo in dovere di farlo. Piedi per terra e compromessi: si valuta caso per caso, contesto per contesto, si danno priorità e si evolve nel tempo. Il tutto e sempre non è sinonimo di successo, tantomeno di qualità.

Quello che credo è che la paura, anche in questi casi, sia foriera di cattivi consigli. Mi è capitato di vedere interfacce che, per timore di non soddisfare “la sottocategoria c della macro categoria b di utenti” includeva tutte le opzioni possibili, sempre visibili, anche quando non necessario. Inutile dire che la complessità era tale da rendere paradossalmente insoddisfatte tutte le personas.

Sei un papà/mamma, un papà/mamma UX. Com’è la UX genitorialità? Come migliorare la vita del proprio bambino?

Marco – Sì! È meraviglioso essere un papà! È una scoperta continua di un mondo che prima non era facile osservare.

Pannolini da cambiare, seggiolini da installare, tutine da asciugare, pratiche burocratiche da sbrigare… Tutte queste nuove cose ti riempiono la quotidianità e ti rendi conto di quanto sarebbe utile una guida pronto uso, che ovviamente non c’è! Ma la cosa più affascinante è come cambiano le cose che già facevi prima.

Come ascolti la musica, come guidi l’automobile, come usi lo smartphone, come ti muovi in città… Ripenso spesso al fatto che, in ambito di Inclusive Design, io potrei definirmi come un escluso temporaneo.

Avete mai provato a usare uno smartphone dallo schermo gigante (altrimenti detto “padella”), usando solo una mano perché con l’altra tenete in braccio la vostra dolce creatura?

Ecco, un paio di ammaccature sulla scocca del mio smartphone testimoniano che non è semplice tornare alla homepage di un’app che mette il back-button in alto a sinistra del mio schermo-padella.

Ovviamente non mi addentro nemmeno nel merito della psicologia cognitiva e della percezione degli infanti, perché altrimenti dovrei raccontare quante volte pensavo di averci capito qualcosa nella crescita del mio piccolo per poi scoprire di non averci capito niente! Spesso è meglio affidarsi all’istinto: la Natura è tra le migliori designer al mondo.

Luana – per il momento devo “passare” 😉 ma sono convinta che la genitorialità aiuti a vedere con altri occhi ciò che davamo per scontato, banale o semplice. Penso sia bello poter riscoprire il mondo e vederlo non solo con occhi diversi ma anche attraverso quelli di tuo figlio.

Penso che sia una seconda chance che la natura può darci, quella di rivedere tutto daccapo, dal vero inizio, di ricrederci, di sentirci smentiti, corretti, sfidati…forse un po’ stressati anche, ma pure molto amati.

Progetti presenti e futuri?

Marco – Al momento UXthis è il mio side-project principale, al quale si affiancano un paio di altre idee ancora molto immature. Una sinergia che voglio sviluppare è quella fra il metodo giornalistico e il Design Thinking (…and Doing).

Il primo è un approccio strutturato all’identificazione e al racconto della verità, attraverso il coinvolgimento di fonti e di persone nella raccolta di prove dimostrabili e ripercorribili da tutti. Il secondo è praticamente la stessa cosa, con un obiettivo diverso.

Ho studiato la deontologia giornalistica e mi affascina molto: noi, come designer, dovremmo confrontarci di più e trovare una nostra versione condivisa e diffusa di deontologia.

Luana – andare a fondo di contesti quali quello farmaceutico (in cui lavoro ora in Novartis) per avvicinarmi a migliorare la qualità della vita delle persone nel senso più stretto del termine.

In un futuro vorrei tornare a organizzare eventi dove si possa collaborare e contribuire a risolvere piccoli o grandi problemi dell’umanità, poter mettere il nostro tassello e renderci utili alle comunità, vicine o lontane che siano; siamo tutti collegati in qualche modo.

Mi piacerebbe fare uso delle filosofie orientali, dal pensiero olistico, per applicarle al nostro lavoro; trovo che tenere conto delle interdipendenze possa essere per noi un grande arricchimento, da occidentali abbiamo un pensiero molto più specifico, tanto preciso quanto frammentato.

Le ultime 3 domande

Consigliate un libro

Marco – Lascio perdere i manuali di design, altrimenti sarebbe troppo difficile sceglierne uno solo!

Mi sento invece di consigliare una graphic novel: “Tokyo Ghost“. In questa storia, viene rappresentato un futuro distopico in cui tutti sono assuefatti alla tecnologia e non riescono più a farne a meno.

Il protagonista maschile è talmente immerso nella realtà virtuale/aumentata che non ha più consapevolezza di sé, ma vuole solo vedere suoi show ricchi di spam. Quello che mi ha colpito non è tanto il percorso dei protagonisti, quanto il “mondo normale”, che è quello in cui rischiamo di finire se non impariamo a darci dei limiti e ad agire secondo un’etica condivisa.

Hyper reality è un’interessante visione di come questo mondo distopico potrebbe apparire nelle sue prime fasi di vita.

Luana – “The culture map”, Erin Meyer
Mi sta aiutando molto ora che lavoro all’estero e in un contesto internazionale, da Stati Uniti ad Asia passando per l’Europa. È ottimo per capire come lavorare in modo efficace quando ci sono diverse culture in gioco, aumentando la consapevolezza propria e del team.

Ma non è solo utile per chi lavora in contesti internazionali e tra 3 fusi orari; poter conoscere e comprendere anche altri modi di pensare e di ragionare è di grande ispirazione, e potrebbe aiutare a dare una giusta misura o qualche aggiustamento ai metodi che siamo troppo abituati ad usare per vederne le falle.

Consigliate un brano musicale o un cd

Marco – Direi “Moon Theme” di Hiroshige Tonomura, una canzone che visse cinque volte.

La canzone nacque come musica di sottofondo del livello ambientato sulla luna, nel videogioco DuckTales per NES. Il gioco è stato pubblicato nel settembre 1989 ed è classificato al n.10 dei migliori giochi per la console Nintendo 8 bit.

Negli anni, questa colonna sonora è diventata un vero culto, in particolare nelle discussioni su Reddit e in YouTube. La seconda vita della canzone è come meme. La versione originale è stata utilizzata per numerosi video (alcuni dei quali perfino controversi!) il cui tema comune è la sfida della forza di gravità.

Il tema è rinato una terza volta come cover da parte di numerosi gruppi musicali, appartenenti a vari generi. Esiste la versione rock degli Advantage, la versione metal di Daniel Tidwell, la versione a cappella di Smooth McGroove e, la mia preferita, la versione orchestrale di Laura Platt.

La canzone si è quindi diffusa in modo esponenziale. Disney si è evidentemente accorta della cosa e ha cavalcato l’onda nostalgica dando vita una quarta volta alla canzone nel 2013 in una versione remastered del videogioco originale e, infine, una quinta volta nel 2017 all’interno del reboot del TV show DuckTales, in cui diventa anche la ninna nanna che Della Duck canta ai suoi figli Qui, Quo e Qua (sì!).

Tutto questo per dire che varie community sul web hanno determinato la creazione di un culto che non è rimasto inascoltato e che vive ancora dopo trent’anni. E anche che conoscere i propri utenti, facendo una buona ricerca, ha consentito a Disney di creare un’esperienza memorabile per quei suoi spettatori trentenni, fan della serie TV originale del 1989 e del videogioco per NES.

Luana – “Destra Sinistra“, Giorgio Gaber.

Canzone sempre attuale e fantastica perché applicabile a tutti gli ambiti della vita: sottolinea la nostra tendenza a categorizzare fino all’esagerazione. Un ottimo invito ad osservare, osservarci e a fare un passo indietro. O a smetterla 😉

Consigliate un film

Marco – Mi viene in mente “Viaggio nella Luna” di Georges Méliès. Questo pezzo di storia del cinema è il risultato di una mente geniale e di un team appassionato che si sono approcciati a una tecnologia ancora senza regole e confini.

La padronanza dello strumento e la creatività nel piegare le regole esistenti hanno permesso la realizzazione di scene altrimenti impensabili. Probabilmente i precursori del web hanno vissuto emozioni simili mentre creavano i primi siti web.

Un esempio è quando Jeffrey Zeldman ha progettato nel 1994 una pagina web per Batman Forever: Jeffrey ha anche raccontato che a quei tempi non esistevano cose come design system, framework, approcci condivisi, o anche solo una pagina Wikipedia oppure un forum su cui studiare i trucchi del mestiere.

Non c’era niente eppure, come Jeffrey racconta nel Podcast di UserDefenders, ha realizzato un sito web di rara efficacia, che è entrato nella storia del web design.

Luana Blue Jasmine, di Woody Allen.

Di film meritevoli ne ho visti molti, e quando mi si chiedono queste cose la mia mente non sa mai scegliere!

Uno di quelli che preferisco di più è proprio questo, forse un po’ amaro alla fine, però aiuta a capire in quali paradossi ci si può trovare quando la rigidità dei propri schemi si scontra con la realtà. E quanto le storie che ci raccontiamo, il personaggio che ci siamo creati, positivo o negativo, sia determinante in larga parte del nostro destino, come profezie autoavveranti.

Che fare? Forse la chiave di tutto, quando quel tutto va storto, è proprio applicare su noi stessi uno storytelling diverso, poca fuffa, tanta flessibilità, e maniche rimboccate. Non si scrive un nuovo capitolo finché si resta sul precedente.

Grazie UXThis!

Concludo con un sentito grazie a Marco e Luana per l’entusiasmo e la celerità delle risposte. È stato un vero piacere poter dialogare con entrambi. E spero che sia stato utile anche per voi che mi seguite.

Alla prossima!

UXthis ha anche un account Twitter tutto suo @weareuxthis e se volete scrivere una mail lo potete fare all’indirizzo infouxthis@gmail.com .

Esiste anche una la pagina Facebook UXthis, che al momento è molto attiva.

Marco Buonvino, poi, è raggiungibile sul suo sito www.marcobuonvino.it, oppure sul suo profilo Twitter @marcobuonvino . Luana Donetti la trovate su LinkedIn e su Medium. Seguiteli e confrontatevi con loro. E se avete osservazioni o volete proseguire il dialogo, i commenti qui sul blog sono i benvenuti!

Grazie ancora e alla prossima intervista!

Biografia di Marco Buonvino

Marco è un appassionato di sketching a mano libera, videogiochi e fumetti. Lavora da 8+ anni nel campo dell’Experience Design. Ha costruito la sua esperienza lavorando in vari contesti: agenzia, startup, consulenza, grande azienda.

È stato mentor nel 2016 per il Master UX di Talent Garden, nel 2017 per Bologna Service Jam, nel 2018 per WUDrome. Ha inoltre guidato vari workshop per il capitolo milanese di Interaction Design Foundation e per gli UX book club di Roma e Milano. Ha co-organizzato l’ultima edizione del Service Design Drinks Rome.

Marco ha effettuato speech sullo UX design in occasioni fra cui: WIAD 2013, IAsummit 2013, Netcomm e-commerce forum 2014, Web Marketing Festival 2014, Sketchin Method Camp 2016, WUDmilan 2016, Salone del Risparmio 2019. Marco è anche stato ospite del primo podcast italiano incentrato sul design, Nois3 About Design.

Appassionato di usabilità e giornalismo, Marco scrive articoli sull’usabilità degli oggetti, prodotti e servizi che appartengono al nostro quotidiano, cercando di raccontare i fatti attraverso il punto di vista del designer.

Tre anni fa si è trasferito da Milano a Roma, e da allora lavora in Poste Italiane come UX / Service designer.

Biografia di Luana Donetti

Da Experience Designer curiosa di diversi contesti e culture, le vicissitudini l’hanno di recente portata a espatriare in Repubblica Ceca, dove lavoro come UX Designer / Researcher per Novartis.

Ama il problem solving e la entusiasma esplorare nuove prospettive, così come facilitare il lavoro di team per virare dalla filosofia al “visibile”.

Luana si sente a suo agio nell’essere una beginner e nel prendere iniziativa per dare vita a progetti e collaborazioni, ancora meglio se includono realtà diverse e team molto compositi, sia per background professionale che per cultura.

Le piace l’idea di avere sempre qualcosa da imparare, non importa l’età.

L’abilità di cambiare focus dal micro al macro, dal dettaglio al quadro complessivo – e viceversa – è qualcosa che adora, che per lei è importante e che cerca costantemente di perfezionare.