Informazione, fake news e social sono temi di cui mi sono già occupato dal punto di vista del contesto e dell’architettura dell’informazione. Il tema è e resta caldo. Al festival del giornalismo che si è svolto a Perugia nel 2017 se ne è molto parlato. In fondo alla pagina trovi alcuni dei video che riprendono l’argomento.
Nel mio vecchio ma ancora valido articolo, ho parlato principalmente di contesti, strutture e ambienti semantici. Della necessità di rendere coerenti le trasmissioni di significato. Ma non può essere e non è solo questione strutturale o solo giornalistica. Quello che vorrei trasmettere io è che il tema riguarda tutti, ossia tutti coloro che producono e consumano contenuti sul web.
Ed è così che nella prima stesura dell’articolo ho lungamente toccato anche argomenti prettamente giornalistici e comunicativi. Ciò che mi auguro è che si apri un dibattito onesto e costruttivo che fino ad oggi non vedo.
Sarà anche perché sono fuori dal giro ma a me pare che non ci sia nessuna voglia di dialogo sull’argomento. Pare che uestione sia solo una questione accademica, per addetti ai lavori. Così non è.
Informazione, fake news e social
Chi fa informazione, ed ha visto perdere la propria centralità in favore delle comunità, accusa i social media per il degrado dell’informazione. Ai social vengono attribuite colpe e responsabilità sul tema delle false notizie. A mio parere, svelando più un proprio pregiudizio che una analisi oggettiva dei fatti. Senza contare quante volte si punta il dito contro i giovani che non saprebbero distinguere le notizie vere da quelle false. Gli adulti invece…
Spesso, però, i veri fautori della fortuna dei social sono stati proprio gli editori, i giornali, i giornalisti. Lo scrive molto bene un giovane Federico Josè Bottino.
La fortuna di servizi come Facebook sono proprio i giornalisti che non fanno i giornalisti ma fanno gli scrittori.
Cavalcando l’onda emotiva dell’ultimo ventennio, nel giornalismo la verità ha ceduto il passo al fine di favorire una cosa che fa fatturare molto di più, la visibilità. Se fino agli anni ’80 il mantra del giornalismo era costituito dalla narratio dei fatti (duri e crudi, alla Oriana Fallaci), oggigiorno il discriminante è il numero di lettori ingaggiati.
E qui ci sarebbe da scrivere altri trattati di Storia del Giornalismo.
Come le fake news diventano popolari e si divulgano sul web
La discussione più ampia ha inizio con l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. E lui stesso parla spesso di Fake News. Questa discussione, anche la mia, non ci sarebbe in Italia, se non fosse una discussione aperta in America. In Italia, non mi pare che ci si confronti più di tanto. Negli Stati Uniti il Washington Post, in risposta a quanto accade, ha modificato la dicitura della propria testata. Rivedendo appunto la sua funzione di giornale.
La CBS News ha raccolto alcune interviste in un unico articolo sulle fake news. Il corrispondente Scott Pelley, si occupa del tema parlando con degli esperti, in un contesto ben preciso, l’intervista.
Nell’articolo si raccontano di come alcune notizie si siano diffuse senza controllo. Pelley mette in luce, attraverso i suoi ospiti, due aspetti della questione. Da un lato ci sono personaggi autorevoli sul web che diffondono notizie false e/o verosimili, anche consapevolmente. Dall’altro, ci sono figure più o meno esplicite che spingono la comunicazione facendo un uso massiccio di bot, e che, sui social, danno autorità a qualunque notizia, vera o falsa che sia.
Uno tsumami di informazione
Sottolineo la conclusione dell’articolo di Pelley.
Nella storia dell’umanità non c’è mai stata tante informazioni a disposizione di così tante persone. Ma è anche vero che mai nella storia c’è stata così tanta cattiva informazione a disposizione di così tante persone. Ed una volta che è online, si tratta di “notizie” per sempre.
Aggiungo io che se già l’onda che stiamo vivendo può sembrare davvero esagerata, non abbiamo ancora idea dello tsunami di dati e informazioni che ci sta arrivando addosso. Vedasi distribuzione della fibra in ogni dove e della velocità di trasmissione che arriverà anche nelle periferie più sperdute.
Libertà di parola o anarchia di parola?
Lo scriveva molto bene Hamilton Santià già a maggio del 2015
Negli ultimi mesi c’è stata un’escalation che, avvenimento drammatico dopo avvenimento drammatico, ha finito per far passare il messaggio – sbagliatissimo – che la «libertà di parola» voglia dire, sostanzialmente, «anarchia di parola». E il significato di tutto questo viene completamente travisato.
[…] Come se porre l’accento sulle contraddizioni nelle nostre architetture di pensiero equivalga alla censura. Come se ogni pensiero fosse lecito in nome della «libertà di parola». Laddove ‘ogni pensiero’ inserisce propaganda nazi-fascista, negazionismo, omofobia, oscurantismo, disinformazione scientifica.
[…] Tutti noi, quando scriviamo un Tweet o uno status su Facebook compiamo un atto politico di cui siamo ‘proprietari’ (se non altro morali). La logica della conseguenza, invece, è ancora tutta da verificare in un paese e in un ecosistema in cui la libertà/responsabilità di parola, critica e di espressione effettivamente la accettiamo solo quando non fa altro che accettare il sistema per quello che è.
Facebook la smetta di fare il poliziotto delle notizie
Di contro, alla lotta alle fake news si affianca il dibattito sulla censura. Controllare i social, infatti, significherebbe attuare procedure di censura decise dall’alto.
Andrea Coccia scrive questo pezzo su lInkiesta Facebook la smetta di fare il poliziotto delle notizie
Credere che spetti a Facebook fare in modo che all’interno della propria piattaforma non vengano condivise bufale è come pretendere che il barista che ti ha fatto il caffé stamattina debba verificare che le chiacchiere che i suoi clienti fanno sono basate su fatti veri o falsi, per poi magari tirare uno scappellotto in testa a tutti i clienti che mentono.
La battaglia di Facebook contro le bufale, lungi dal poter risolvere il problema, rischia di peggiorare le cose. Sì, perché dando agli utenti la possibilità di denunciare i contenuti-bufala, mette un miliardo e mezzo di persone di culture diverse, con preparazioni diverse e competenze diversissime sullo stesso piano. Saremo tutti uguali davanti al pulsante anti bufala, ma in realtà non siamo per niente uguali davanti alle notizie.
Come se ne esce?
La questione fake news e social dunque è molto complessa. Come ho già detto andrebbe affrontata da squadre di studio. Con il dialogo e l’applicazione di soluzioni sperimentali per vedere l’effetto che fa. Dal mio osservatorio di provincia al momento le fake new sono casi studio, accademici. Chi si occupa di informazione dovrebbe fornirsi di redazioni che riportino ad un contesto coerente. Sarebbe necessario riportare il social alla funzione di strumento conversazionale e non solo strumento di diffusione.
Marco Borraccino presentando il libro Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità intervista l’autore Walter Quattrocchi. Alla fine del lungo articolo si arriva ad una conclusione.
Dunque è Facebook a generare le bufale? No. Le bufale sono sempre esistite. Oggi però hanno opportunità molto più potenti per divenire virali e diffondersi, perché ogni utente è di per sè stesso un media, con la sua visione del mondo da veicolare e i suoi canali di diffusione a disposizione. La tecnologia ha quindi enormemente accresciuto la necessità di competenze individuali, perché ha conferito a ognuno di noi facoltà inimmaginabili fino a qualche anno fa.
Come se ne esce? Secondo Walter Quattrociocchi e Antonella Vicini, ritrovando il senso più profondo della comunicazione: l’ascolto. Quello che, tornando all’inizio del pezzo, ha portato ad esempio la Fondazione Pertini ad aggiungere alla smentita del meme una postilla affatto banale: “certo è che l’idea di democrazia coltivata da Sandro Pertini era strettamente legata al concetto di governo a servizio del popolo”. Riaffermare la verità per costruire ponti tra le persone, non per dividere tra istruiti e non.
Fake news e social
Fake news e social secondo alcuni pare che vadano di pari passo. Sul blog, dopo aver parlato di fake news in senso strutturale e dopo aver sottolineato l’importanza degli ambienti semantici concludo il discorso parlando del contesto sui social. Premetto sempre, per chi non mi segue settimanalmente, che temi di questo genere non possono essere esaustivi con un solo articolo. E ovviamente ciò che riporto è il frutto del tempo e degli stessi algoritmi che mi fanno conoscere determinate cose e non altre.
Nella prima stesura di questo articolo sono spesso uscito fuori tema andando a toccare elementi più giornalistici. Ma ho preferito affidare ad altri contesti le mie opinioni su informazione, fake news e social e qui restare nell’ambito strutturale. Mi piacerebbe, infatti, che alla fine di queste tre settimane, dopo la lettura degli articoli
i miei lettori avessero le idee chiare sul punto di vista di un architetto dell’informazione. O quanto meno avere uno strumento in più per riflettere sul tema. O per codificare il problema di cui sempre più spesso si parla.
AGGIORNAMENTO 13 Aprile 2017 ore 00.25
E’ interessante che proprio oggi ricevo una notifica da parte di Facebook che mi aggiorna sul lavoro che Facebook sta facendo per fermare da disinformazione e le fake news e un decalogo su come scoprire le fake news.
Raccolgo alcuni punti interessanti per il blog
- Investigate the source. Ensure that the story is written by a source that you trust with a reputation for accuracy. If the story comes from an unfamiliar organization, check their “About” section to learn more.
- Is the story a joke? Sometimes false news stories can be hard to distinguish from humor or satire. Check whether the source is known for parody, and whether the story’s details and tone suggest it may be just for fun.
- Some stories are intentionally false. Think critically about the stories you read, and only share news that you know to be credible.
Fake news e social
I social sono un ambiente complesso e lo scenario che presentano non è qualcosa da poter spiegare analizzando un solo pezzo. Qualunque discorso facciamo sui social è sempre di parte e parziale. Parlare di social significa parlare del mondo. Per questo motivo sottolineo il fatto che personalmente cerco di guardare allo scenario dei social e di restringere (con fatica) la discussione all’elemento strutturale.
E seppure in alcuni punti, il mio discorso possa sembrare semplice o semplicistico, la distinzione tra notizia vera e falsa non è cosa banale. Distinguere una notizia falsa da una vera richiede uno sforzo culturale non indifferente e una conoscenza specifica sui vari temi proposti.
Parlare di social significa, in buona parte, parlare di Facebook. E i social, così come Facebook, non sono contesti coerenti per gli utenti. I social sono contesti coerenti per i proprietari e per la raccolta dei dati di chi frequenta i social. L’architettura dell’informazione di Facebook è una architettura che io definirei anfibia. Respira e assorbe utenti e poi li trattiene dentro. Un po’ come la balena di Pinocchio.
Attraverso l’uso di algoritmi specifici è volta a tenerci dentro le mura del social. La convenienza specifica di facebook, come la chiama Alberto Puliafito
è farci star dentro Facebook.
In un certo senso, Facebook vuole diventare internet.
Interesse di Facebook è raccogliere dati, tutti i dati possibili e immaginabili, da rivendere.
Architettura dell’informazione di Facebook
Non c’è mai stato nessun interesse a spiegare la realtà. Facebook non si è neppure dato il compito di organizzare le informazioni per creare contesto. Il contesto, invece, diventa molto coerente quando paghiamo Facebook per sponsorizzare un nostro post. Non c’è nessuna possibilità di ambiguità. Vai a colpire con il tuo messaggio, se lavori bene, le persone che potenzialmente sono interessate.
Nel contesto pubblicitario, l’utente pagante riesce, con molta facilità a compiere tutte le azioni che lui vuole fare per raggiungere il suo obiettivo.
L’architettura dell’informazione dei social varia da social a social. Così come l’architettura dell’informazione dei social è diversa dall’architettura dell’informazione di un forum o di un blog. In questi tre contesti le dinamiche di partecipazione sono diverse. E di conseguenza l’utente si comporterà diversamente.
Ridistribuzione della rilevanza
Federico Badaloni lo spiega, sempre con la chiarezza.
Ci sono degli ambienti che forzano le persone a comportarsi in un certo modo, gli ambienti in cui abitiamo ci portano ad agire in un certo modo.
Facebook è una macchina della rilevanza? Gli architetti dell’informazione di Facebook hanno progettato quell’ambiente in modo che il concetto di rilevanza si appiattisse sul concetto di interesse individuale.
E’ possibile progettare un social media senza che accada questo? Forse twitter ha delle dinamiche in cui la possibilità democratica di creare un hashtag si avvicinano alla possibilità quello che per una comunità è interesse collettivo e non interesse individuale.
Coerenza e ambiente semantico
I social dunque, è chiaro che non possono essere coerenti se non con se stessi. La nostra stessa rete sociale non è coerente. Tra i nostri “amici sociali” abbiamo persone che la pensano diametralmente all’opposto. E che magari nella realtà non frequentiamo o non abbiamo mai incontrato. All’interno dei nostri gruppi o comunità, ci sono persone che hanno una cultura diversa, istruzioni dissimili. Senza contare che le persone non sono completamente rosse o blu, bianche o nere. C’è chi usa i social per lavoro, chi per svago, chi per ridere. E questo tra persone che sono ben identificate. Per non parlare dei trolls di professione o chi apre un account social per condividere sofferenza o per sfogare le proprie, frustrazioni o rabbie. Moltiplicato per i milioni di account che vivono sui social è facilmente comprensibile che gli ambienti semantici siano complessi e molteplici.
Ritornando a noi e agli ambienti semantici, verificare le notizie, non solo significherebbe verificare le notizie in sé, che ci vengono proposte dai nostri contatti. Che poi sarebbe la cosa, paradossalmente, più facile. Ma significherebbe anche comprendere a quale ambiente semantico e a quale contesto appartiene la notizia.
La bacheca è il nostro pulpito
La facilità di parola offerta dalle nuove tecnologie pone subito tutti noi su un pulpito dove poter arringare la folla con il proprio pensiero. Facebook con le sue imboccate pone quel pulpito al centro delle nostre case. Su Facebook, non sempre leggere l’altrui pensiero è un atto volontario e voluto.
Qualcuno definisce questi comportamenti tic della comunicazione digitale da cui si fa fatica a sfuggire.
Saranno anche tic, ma personalmente penso che si tratti di progettazione. Nella progettazione di un social si garantisce la possibilità di parola a chiunque e su qualunque cosa. Oggi magari non ci pensiamo più perché la struttura dei commenti è cosa ovvia e predicata ma la possibilità di commentare o meno è una decisione che prende chi progetta e costruisce il social, il blog o il sito.
La possibilità di commentare o non commentare un sito istituzionale è una volontà progettuale. Nei fatti poi è una scelta politica e non certo comunicativa.
I commenti sui social
I social sono luoghi di dibattito e di dialogo. Generalmente il dibattito non è mai un dibattito profondo. Non perché non ci sia la volontà di questo profondità. Ma perché mancano molti elementi che impediscono la comprensione del contesto. Quando commentiamo, con chi ci stiamo confrontando? Con chi stiamo parlando? Gli altri ci conoscono?
Anche in gruppi molto coerenti, la discussione spesso degenera. Le incomprensioni sono dietro l’angolo. Basta una incomprensione, una parola di troppo, un aggettivo scorretto. Basta persino un refuso per sviare la discussione e far perdere il significato di pensiero che si voleva sottolineare.
Nei commenti, a mio parere, mancano tanti elementi di conoscenza delle relazioni. I cosìdetti filtri, non sono altro che le normali regole di convivenza che spesso sui social si abbattono.
Ci vorrebbe un moderatore e non abbandonare i lettori al loro destino. Ma questa è un’altra storia.
Auto conferma, contesti reali, censura
Un social potrebbe essere paragonato ad una macchina fotografica? Forse si. Per certi versi si. Esso focalizza la nostra attenzione su determinate immagini. Descrive certamente una porzione del reale ma, nello stesso tempo, impedisce di vedere e di osservare tutto quello che nella realtà è possibile vedere. Senza considerare il fatto che l’algoritmo di un social, tende a confermare tutto quello che noi diciamo. Autoconfermando il nostro pensiero.
In contesti reali abbiamo molte più informazioni. Abitudini, educazione, pudore, introversione o estroversione ci portano a confrontarci con l’altro in modo più o meno civile, secondo determinate regole di contesto. Tutto la parte di linguaggio di non verbale, ci aiuta nel confronto con l’altro.
Rosy Battaglia, sul suo profilo social, ricorda
“La nostra vita è divisa fra due mondi diversi: online e offline, connessi e disconnessi. La vita connessa è in gran parte priva dei normali rischi della vita. Se non ti piace l’attitudine di altri, smetti di comunicare con loro, li disconnetti. Quando sei offline, e incontri per forza le persone reali, devi affrontare il fatto che la gente è diversa, che ci sono molti modi di essere umani. Devi affrontare la necessità del dialogo, devi impegnarti in una conversazione con loro”.
Zygmund Bauman, tratto da “La teoria svedese dell’amore”.
La necessità del dialogo e l’impegno alla conversazione. Insomma, probabilmente, in presenza, non saremmo così pronti e violenti a puntare il dito su un professionista (o collega) che si è trovato in una situazione di emergenza. Dal vivo avremmo più chiarezza di giudizio. Avremmo magari un tono di voce più pacato, maggiori possibilità di interazione con l’interessato e chiarimento immediato (e non asincrono, come spesso accade).
Il bollino rosso di Facebook
A conferma di quanto scrivo mi viene in aiuto la recente notizia della comparsa di un bollino rosso che aiuterà gli “amici” di facebook a capire se una notizia è vera o falsa o sicuramente dubbia. In pratica, Facebook ha iniziato una collaborazione con due società di fact checking. Si tratta della Snopes.com e PolitiFact. Entrambe le società che si occupano di verificare le notizie, stanno studiando il modo di bonificare l’ambiente. Ogni qualvolta ci sarà una notizia falsa, segnalata dagli utenti o messa in discussione dalle due società, sulla notizia comparirà un bollino rosso. Questo, insieme alla dicitura disputated, dovrebbe segnalare a chi legge che la notizia che stiamo leggendo è probabilmente falsa.
Tutto molto bello e fin troppo facile. Peccato che la prima notizia da bollino rosso sia stata la notizia di un giornale satirico. La notizia afferma che “le fughe di notizie sui servizi segreti che preoccupano la CIA e Donald Trump, siano causate dall’uso di uno smartphone Android da parte del Presidente degli Stati Uniti”.
La notizia è falsa. Una bufala. Per chi non ha una cultura digitale adeguata risulta anche verosimile. Ma resta comunque falsa. La notizia è stata scritta in un contesto satirico. Ed è stata scritta per far sorridere o ridere. Chi legge un giornale chiaramente satirico, sa in quale contesto sta entrando, sa che tipo di notizie troverà, conosce quale trasmissione di senso gli stanno offrendo gli autori di quel giornale o di quel sito.
Conclusioni
Pare dunque che questa quantità abnorme di informazioni che dovrebbe essere la nostra fortuna, ci si stia ritorcendo contro.
L’architettura dell’informazione, come ho già detto, non sarà la panacea di tutti i problemi, ma sicuramente è la disciplina che più di altre ha in se l’obiettivo di costruire argini alla sovrabbondanza informativa.
A mio parere un modo per ristabilire l’equilibrio tra informazione e conoscenza può aversi praticando quotidianamente la ricostruzione di contesti chiari, usabili, accessibili e trovabili a tutti i livelli.
Si può iniziare da uno studio sistematico dell’architettura dell’informazione o molto più banalmente rinunciare alla condivisione di notizie che noi stessi riteniamo dubbie e fuori dal contesto.
Questa è una pratica crudele. Si tratta di mettere in dubbio la fiducia delle persone che frequentiamo sui social. Rinunciare a qualche link significherà rimettere ordine al contesto. Almeno al nostro contesto, per un riequilibrio tra fake news e social, tra verità e social. Tra noi e il mondo.
Fake News, cosa sono, attraverso le lenti del mio blog
Avevo titolato l’articolo Fake News e Architettura dell’informazione. Ma sinceramente non so come la pensano i miei colleghi e forse parlare a nome della disciplina mi sembra troppo presuntuoso. Per questo motivo ho specificato che l’opinione, che mi sono fatto attraverso l’architettura dell’informazione, è mia e del blog. Di parte e parziale, come tutte le verità di questa terra. Ai lettori e ai posteri l’ardua sentenza di dare un giudizio se volete. Anche se ad essere sincero, mi auguro che qualcuno voglia arricchire questo pezzo piuttosto che giudicarlo.
Cosa sono le fake news?
Le fake news sono notizie false date per vere. In molte occasioni sono anche verosimili. Le fake news non hanno uno scopo informativo. Hanno il solo scopo commerciale di attrarre le persone a visualizzare la pubblicità contenuta nei vari siti. Spesso il fraintendimento tra news e fake news sta nel modello di business che è identico. Entrambe vengono prodotte al solo scopo di essere diffuse il più possibile e portare guadagni a chi le produce attraverso la pubblicità.
Le persone generalmente non verificano la veridicità delle informazioni che condividono. Molto più spesso non leggono i contenuti che consigliano ai propri amici. E generalmente si soffermano alla visione della foto o del titolo.
Per questo motivo è necessario andare più in profondità e determinare delle strutture che permettano di creare un contesto che si differenzi dalle fake news.
Fake news, lo scenario
Oggi si fa un gran parlare di fake news, bufale, notizie false, notizie alternative, post verità. Negli Stati Uniti è una questione ampia e avanzata che sta restituendo autorità alla carta stampata. Per questo motivo anche in Italia si pensa che sia prossimo il ritorno alla carta, pur non seguendo le buone pratiche d’oltreoceano, pur non facendo uso di architettura dell’informazione. pur non creando redazioni di verifica delle notizie, pur non assumendo figure professionali che vanno incontro ai lettori. Non si capisce, dunque, quale dovrebbe essere la causa per un ritorno alla carta stampata, anche in Italia.
Sebbene a parlare di fake news siano principalmente i giornalisti che giustamente ne sentono il carico, penso che il tema riguardi tutte le categorie di professionisti che producono contenuti. Ed oggi, che piaccia o no, tutti produciamo contenuti. Sono quasi certo, infatti, che i giornalisti che leggeranno questo articolo storceranno il naso. E la cosa mi dispiace. Ai giornalisti toccherebbe la verifica delle notizie. Magari l’adozione di un verification handbook, forse. Ma ci sono altri pezzi coinvolti nella trasmissione di significato. Tra questi c’è l’architettura dell’informazione appunto e l’organizzazione del lavoro, per esempio. A mio parere, il dibattito va allargato ad una ampia platea.
Con questo articolo non dimostrerò, dunque, che l’architettura dell’informazione sia la panacea (la personificazione della guarigione universale e onnipotente) a tutti i mali del mondo della comunicazione. Né che la sola applicazione della disciplina possa risolvere tutti i guai dell’informazione italiana. L’architettura dell’informazione è però uno dei tasselli fondamentali che andrebbero tenuti in conto. Almeno ascoltati.
Fake News e Architettura dell’informazione
Da architetto dell’informazione mi pongo ogni giorno delle domande. Il mio obiettivo è quello di trovare risposte oltre le apparenze. La ricerca di senso della realtà. La ricerca profonda delle ragioni che ci portano a certe scelte.
Dal punto di vista dell’architettura dell’informazione le fake news, le notizie false, sono un problema ben identificato. Ossia, dal punto di vista strutturale le notizie false riguardano il contesto e gli ambienti semantici.
Lo ha spiegato benissimo Jorge Arango al X summit di Architecta del 2016. Alcune settimane fa ho riportato sul blog quanto è stato detto Jorge Arango e l’architettura dell’informazione.
Fake News, cosa sono secondo Jorge Arango
Un mio amico mi chiedeva se ci fosse una architettura della menzogna o della bufala. Certamente c’è un linguaggio e uno storytelling della bufala. Ma non mi occupo oggi di spiegare questo. Mi porterebbe troppo lontano.
Scrive e dice Arango.
Dopo l’elezione 2016 negli Stati Uniti, si è parlato molto del problema delle “notizie false” sui social network. Ciò significa che un particolare ambiente semantico ( i social media che stiamo usando per informare la nostra visione del mondo) sta diventando un ecosistema inquinato con materiale proveniente da un altro ambiente semantico (la propaganda, o in alcuni casi, la satira). Questa non è una novità, naturalmente. La disinformazione è stata intorno a noi da tempo. Ciò che è nuovo è la pervasività del problema. E il fatto che ora passiamo molto più fluidamente tra i diversi ambienti semantici. Questo rende più difficile per noi capire come dovremmo interpretare ciò che stiamo guardando. Ci conviene capire come possono diventare inquinati, e lavorare per garantire che la trasmissione di significato possa avvenire in modo più “limpido” possibile.
Arango sottolinea che le notizie false non sono affatto una novità. La novità semmai è la loro pervasività. Le notizie false arrivano, oggi, anche a persone che non hanno le difese culturali per comprendere il contesto.
Compito di chi vuole migliorare il sistema (costruire un internet migliore) è quello allora di garantire la trasmissione di significato della realtà. Gli architetti dell’informazione si pongono questo obiettivo come fondamento del proprio lavoro. Ma la trasmissione di significato della realtà è un obiettivo che chiunque dovrebbe porsi. Il perché è presto detto.
Risorse non rinnovabili
La costruzione di un internet migliore non è un ideale utopistico. Ma è un dovere reale per chi produce contenuti, una pratica di etica quotidiana.
Arango continua nel suo ragionamento.
Quando discutiamo di sostenibilità dell’ambiente fisico, parliamo spesso di risorse non rinnovabili.
Gli ambienti informatici hanno anche loro una risorsa non rinnovabile, essenziale. Una risorsa senza il quale l’intero sistema crolla. L’attenzione. L’attenzione degli esseri umani, che interagiranno con i prodotti e i servizi che progettiamo.Che cosa stiamo facendo con il tempo prezioso degli utenti delle nostre applicazioni? Li stiamo aiutando ad essere genitori, collaboratori, cittadini più efficienti? O stiamo dando loro solo una soluzione rapida, della dopamina, in modo da poter mostrare loro più annunci?
Ogni giorno, le persone stanno spendendo più del loro tempo con le applicazioni e i siti web che creiamo.Dobbiamo onorare questo privilegio per non sprecare la loro attenzione.
La costruzione del contesto
L’architettura dell’informazione costruisce il contesto. Se all’interno dei contesti informativi entrano notizie che confondono il senso della realtà, creiamo un buon ambiente per le fake news, o di notizie che comunque non saranno comprese. E che daranno vita ad altri fraintendimenti. Molte volte questo accade strutturalmente. Gli articolo spesso sono immersi in un contesto che non è il loro. E questo si accentua di più quando una notizia, anche se vera, non trasmette alcun senso della realtà. Alla lunga il contesto, in cui proliferano queste notizie, perde di autorità.
E’ paradossale che mentre le testate riconosciute, per la loro rilevanza, perdano di autorità, i siti di bufale si rifanno a questi contesti. Sembrerebbe, quasi, che i due contesti si imitino a vicenda. E questo accade molto probabilmente anche perché il modello di business, ossia il modo in cui guadagnano, è lo stesso.
Quando un giornale mainstream e generalista, scrive un titolo dal tono satirico, non fa altro che copiare e riprendere ambienti semantici che appartengono ad altri contesti. In questo travaso di contesti e di sistemi semantici ad avere la meglio, sono le bufale. E a perderci, di brutto, è l’autorevolezza dei giornali rilevati. Non è un segreto, infatti, che i quotidiani in edicola perdano lettori con una emorragia continua (almeno questi i dati fino al 2015).
Anche qui le ragioni sono varie. Parlarne richiede uno sforzo notevole, almeno quanto leggerne. Anna Maria Testa ne scrive lungamente su Internazionale e sul suo blog.
Continuiamo a farci del male
Tutto questo discorso interessa poco, purtroppo, a coloro che hanno potere decisionali sul contesto. Sicuramente hanno molto meno interesse di voi che siete arrivati alla conclusione di questo articolo. Ancora oggi, economicamente, il contesto, la progettazione, la ricerca, il buon senso, l’applicazione delle buone pratiche, sono ritenute irrilevanti dai vertici decisionali. Ciò che conta sono i numeri. Quel che conta è la sola fatturazione. Anche se poi si rivela tutto un castello di carta al macero.
Attenzione. Non dico assolutamente che sia cosa facile. Ma solo quando si creerà una massa critica di persone che comprenderanno questo pezzo dell’informazione (e altri pezzetti di significato), si potrà iniziare a ricostruire quanto abbiamo fin qui perso. Quando e se si creerà.
Cosa hanno detto i giornalisti al festival del giornalismo di Perugia 2017
Spirito libero: l’evoluzione della narrazione eno-gastronomica.
Fake news and the misinformation ecosystem.
Quanto costano le bufale? Le conseguenze giuridiche delle fake news.
L’opinione pubblica nell’era dell’algoritmo.