Il termine “digital genocide” indica la rimozione o l’alterazione sistematica di dati su intere fasce di popolazione, spesso vulnerabili, con l’effetto di “cancellarne” l’esistenza nelle statistiche, negli archivi e nell’elaborazione di politiche pubbliche.
Seppur non equivalga al genocidio fisico, questo fenomeno, reso possibile dall’uso selettivo o malintenzionato delle tecnologie dell’informazione, genera conseguenze potenzialmente disastrose: impedisce di misurare il reale impatto di malattie, discriminazioni e disuguaglianze, vanificando qualsiasi intervento correttivo.
Le comunità “cancellate” restano prive di tutela poiché spariscono dai documenti ufficiali e dagli strumenti di analisi, con effetti che minano la salute pubblica, l’assistenza sociale e i diritti civili su vasta scala. Nel contesto di rapida digitalizzazione in cui viviamo, riconoscere e contrastare il digital genocide è cruciale non solo per salvaguardare la ricerca scientifica e le basi dei sistemi sanitari, ma anche per difendere la verità dei fatti e la dignità di ogni individuo.
Il 12 February 2025 è stata pubblicata sul British Medical Journal, in forma anonima, la lettera di un ricercatore di uno degli enti di ricerca federali degli Stati Uniti messi sotto attacco dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump e da Elon Musk.
La lettera descrive un contesto sconvolgente, quasi distopico degli Stati Uniti. Ossia mette in rassegna alcuni fatti come la chiusura di programmi di aiuto, il ritiro dagli accordi internazionali sulla salute e sul clima, l’eliminazione di dataset fondamentali e la proibizione di determinati termini nei documenti ufficiali. Vengono citati esempi inquietanti come la cancellazione di dati su popolazioni vulnerabili e persino la sparizione di riferimenti alla mortalità materna. L’autore parla di “digital genocide”, spiegando come interi gruppi di persone stiano venendo “cancellati” dalle statistiche.
Quando i dati scompaiono: il ruolo dell’architetto dell’informazione in tempi di censura
Alla luce di queste affermazioni, la figura dell’architetto dell’informazione assume una rilevanza cruciale. Se, infatti, l’architetto dell’informazione è colui o colei che cura la struttura, la reperibilità e la coerenza dei dati. Quando una parte significativa dei dataset scompare o viene censurata, l’intera architettura che regge la ricerca e la comunicazione scientifica rischia di crollare.
Censura e “genocidio digitale”: perché le architetture dell’informazione sono in pericolo
Nella lettera anonima si afferma che i ricercatori hanno ricevuto una lunga lista di parole proibite, tra cui “bias”, “gender”, “LGBT” o “inclusion”.
Come conseguenza di questo divieto, si leggono frasi come:
“We have been told to remove references to vulnerable groups and retract or pause the publication of any research manuscript… Data on transgender men and women are being deleted.”
Se le parole e i dati scompaiono, gli interi sistemi di catalogazione e classificazione – indispensabili all’architettura dell’informazione – perdono consistenza.
La sparizione di tali informazioni non si limita a un mero problema di scelta lessicale.
Cancellare le categorie di intere popolazioni, ad esempio donne e persone LGBT, significa distruggere la possibilità di tracciare problematiche specifiche, come la mortalità materna o la diffusione di determinate malattie. In un contesto architetturale, i vuoti prodotti da una censura sistematica interrompono la continuità semantica. E questo renderebbe impossibile costruire ontologie affidabili e “mappature” dei dati che descrivano la realtà in modo accurato.
L’impatto sul lavoro dell’architetto dell’informazione
L’autore anonimo della lettera parla di un vero e proprio clima di terrore e di “shock and awe” che si abbatte sui ricercatori.
Quando un’istituzione ordina di eliminare ogni riferimento a donne o minoranze, l’architetto dell’informazione subisce un danno anche nel suo lavoro più elementare. Non si potrebbe più nominare correttamente i fenomeni, né integrare set di dati completi, né offrire percorsi di ricerca significativi.
Se la tassonomia ufficiale dev’essere monca di termini chiave, tutto il sistema di indexing e retrieval vacilla.
La sparizione di statistiche fondamentali, come i tassi di mortalità o i dati epidemiologici, rende la progettazione di architetture sanitarie e di knowledge management intrinsecamente falsa o fuorviante.
L’architetto dell’informazione, che di norma bilancia esigenze degli utenti e integrità dei contenuti, si troverebbe a combattere contro la manipolazione ideologica, rischiando di dover collaborare a un’architettura distorta.
Strategie di resilienza: come reagire alla censura dei dati
Se un governo ordina la rimozione di intere categorie di dati, si crea un vuoto informativo che ostacola la possibilità di compiere analisi epidemiologiche e sociali.
“These populations will suffer now and for decades to come”,
sottolinea l’autore anonimo, mettendo in luce la portata umana ed etica di questa cancellazione.
Per chi lavora nell’architettura dell’informazione, una forma di resistenza dovrebbe essere quella è cercare di mantenere la tracciabilità delle modifiche, annotando dove e come i dati sono stati alterati o rimossi.
Sarebbe fondamentale:
- Conservare copie (se possibile in più giurisdizioni) per proteggere la memoria storica e impedire che si perda definitivamente traccia dei fenomeni.
- Mantenere il collegamento con comunità scientifiche e organizzazioni internazionali – capaci di fornire copie di backup o hosting alternativo – diventa una strategia per salvaguardare la verità dei fatti.
- Dare evidenza dei dati che mancano, invece di rimuoverli silenziosamente, è un altro modo per segnalare l’alterazione.
Se la documentazione indica che certe categorie (donne, minoranze etniche, persone LGBT) non compaiono più, diventa palese anche per i non esperti che qualcosa non torna, rendendo la censura più visibile e, quindi, contestabile.
Il ruolo della comunità: unire le forze per proteggere la conoscenza
L’anonimo ricercatore afferma di essere “terrified of the response” e che molti suoi colleghi rimangono in silenzio per paura di ritorsioni o licenziamenti. Questo scenario rende evidente l’importanza di una comunità che sappia offrire protezione, sostegno legale e solidarietà morale.
Per gli architetti dell’informazione, la collaborazione con professionisti di altre discipline, come giornalisti e attivisti, può aiutare a denunciare pubblicamente la rimozione di dati e a “tenere viva” la storia reale dei fenomeni.
Le reti internazionali (organizzazioni non governative, istituzioni accademiche straniere) possono fungere da cassa di risonanza, ospitando dataset completi e rendendoli accessibili fuori dalla giurisdizione censoria.
Le comunità dunque dovrebbero ritornare ad essere attive, anche se, come ho scritto propri su queste pagine che le comunità sono in declino. Sarebbe davvero bello essere smentiti.
Difendere l’accesso a dati per un futuro inclusivo
Per un architetto dell’informazione, proteggere la completezza dei dataset e la correttezza della tassonomia non è solo una questione tecnica. È un impegno etico che si deve colloca al crocevia tra scienza, democrazia e diritti umani. Quando le istituzioni impongono la rimozione di termini e informazioni fondamentali, si incrina la possibilità di costruire e organizzare la conoscenza in modo trasparente.
Resistere a questa erosione significa difendere il diritto di ogni persona a esistere nelle statistiche, nei documenti, nelle ricerche. Significa garantire alle future generazioni la possibilità di analizzare la storia in modo completo e imparare da essa, senza lasciarsi ingannare da architetture informative volutamente monche.
Si tratta di un compito complesso che richiede coraggio, coordinamento internazionale e, soprattutto, la consapevolezza che progettare un sistema informativo non è mai un atto neutrale, ma una scelta di responsabilità verso la realtà che si decide di raccontare.