I social media non sono solo piattaforme di connessione e intrattenimento, ma anche strumenti potenti di influenza politica ed economica. Attraverso il concetto di Shock Doctrine, elaborato da Naomi Klein, possiamo analizzare come eventi di crisi – dalle pandemie ai conflitti geopolitici – vengano sfruttati per imporre cambiamenti radicali e spesso impopolari. Nell’ecosistema digitale, questi momenti di crisi vengono amplificati e strumentalizzati attraverso strategie di disinformazione, polarizzazione e manipolazione algoritmica, plasmando opinioni e comportamenti in modi sottili ma pervasivi. Questo testo esplora il ruolo dei social media nella gestione dello shock, evidenziando i rischi e le dinamiche di potere che ne derivano.
Manipolazione e controllo nell’era digitale
Negli ultimi anni, la testata online Valigia Blu, conosciuta per il suo approccio alle notizie e per una solida community, ha deciso di compiere un passo drastico: abbandonare progressivamente i social di Elon Musk e, più di recente, quelli di Mark Zuckerberg.
La scelta, maturata in seguito al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e alle dichiarazioni pubbliche dei leader delle Big Tech, segna uno spartiacque nel dibattito su come intendiamo vivere e creare informazioni nell’era digitale. In una lunga riflessione, la redazione di Valigia Blu ripercorre la nascita dei social come spazi di libertà e disintermediazione, fino alla loro trasformazione in sistemi oligarchici governati da pochissimi miliardari, mossi ora da interessi politici e profitti personali. L’annuncio di Zuckerberg di voler porre fine al fact-checking negli Stati Uniti e di allentare le restrizioni sui discorsi d’odio a favore di chi detiene il potere non è visto come un semplice cambio di policy, ma come un deciso allineamento ideologico alle posizioni trumpiane.
Posizionamento culturale
La direzione intrapresa da questi giganti digitali non è solo questione di business, bensì di posizionamento culturale. Nel momento in cui piattaforme come X, Facebook o Instagram giocano con i confini dell’informazione, assecondando poteri forti e alimentando meccanismi di disinformazione, chi fa informazione indipendente si trova di fronte a un dilemma etico.
Se restare significa accettare logiche di propaganda e dinamiche tossiche, allora lasciare quei luoghi digitali è una scelta di coerenza che, paradossalmente, rischia di costare in termini di visibilità. In quest’ottica, l’abbandono non è “sparire” ma ristrutturare la propria presenza online in modo sostenibile, tornando a luoghi di confronto alternativi (newsletter, piattaforme open source, siti personali) che non siano ostaggio degli algoritmi.
Questa presa di posizione di Valigia Blu, già tra i primi a lasciare X per poi svincolarsi dall’universo Meta, alza la posta in gioco per gli editori, i giornalisti e le stesse comunità di lettori: o ci si adatta ai nuovi regimi comunicativi, accettandone i rischi di manipolazione e propaganda, oppure si sperimentano spazi più piccoli, ma anche più liberi e rispettosi di regole condivise.
Ecco dunque come nasce il dibattito che introduce il tema del sovraccarico informativo e della “shock doctrine” digitale. Se i social network, nati come espressione di una democrazia partecipativa, si trasformano in monopolî capaci di orientare l’opinione pubblica, allora la resistenza passa anche attraverso la creazione di canali indipendenti e comunità più consapevoli.
Dibattiti e conversazioni sui social
I dialoghi sugli stessi social offrono uno spunto di riflessione profondo su come i social media possano diventare un terreno fertile per dinamiche simili alla “Shock Doctrine” descritta da Naomi Klein.
La teoria di Klein, nata per analizzare le strategie politiche ed economiche, si adatta sorprendentemente bene al contesto digitale in cui viviamo oggi. Ma cosa significa esattamente, e come possiamo proteggerci dall’essere travolti dal caos online?
La shock doctrine e il caos digitale
Naomi Klein, nel suo libro The Shock Doctrine, descrive come momenti di crisi e disorientamento vengano sfruttati per imporre cambiamenti radicali, spesso contro gli interessi delle persone. Questa strategia si basa sull’idea che, in situazioni di caos, le persone siano troppo sopraffatte per reagire in modo razionale. Applicando questa lente ai social media, possiamo vedere come le piattaforme digitali creino un flusso costante di informazioni, spesso contraddittorie o allarmistiche, che ci lasciano in uno stato di perenne sovraccarico emotivo e cognitivo.
Jen, sociologa e attivista per la salute mentale, sottolinea come questo “sovraccarico” non sia un effetto collaterale casuale, ma un obiettivo preciso. I social media sono progettati per massimizzare l’engagement, spesso attraverso contenuti che suscitano emozioni forti: rabbia, paura, indignazione. Questo meccanismo non solo ci tiene incollati agli schermi, ma ci rende anche più vulnerabili a messaggi manipolativi o a decisioni impulsive.
Il sovraccarico emotivo e la nostra salute mentale
Alcuni esperti condividono un sentimento comune: la necessità di non prendere i social media troppo sul serio.
C’è chi suggerisce di rivalutare i video di gattini come antidoto allo stress, mentre altri propongono di pubblicare contenuti altrove e condividere solo ciò che è veramente significativo. Questi consigli non sono solo pratici, ma rappresentano una forma di resistenza al sistema che cerca di sopraffarci.
Il punto cruciale è che i social media non sono neutri.
Gli algoritmi che li governano sono progettati per sfruttare le nostre debolezze cognitive, creando un ciclo infinito di attenzione e reazione. Questo può portare a un senso di impotenza, come se fossimo costantemente in balia di forze più grandi di noi. Ma, come dice qualcuno non abbiamo il dovere di “migliorare” i social media. Piuttosto, possiamo scegliere come interagire con essi, preservando la nostra salute mentale e la nostra autonomia.
Il sovraccarico di informazioni è intenzionale e strategico
La sociologa Jennifer Walter spiega che il sovraccarico di informazioni è intenzionale e strategico. Il suo thread si collega alla Shock Doctrine di Naomi Klein, descrivendo come momenti di crisi e caos vengano sfruttati per introdurre cambiamenti radicali, impedendo alle persone di reagire efficacemente. Walter sottolinea che, come previsto dal teorico dei media Marshall McLuhan, l’overload informativo rende gli individui passivi e disimpegnati, creando una “bottiglia cognitiva” che rende difficile analizzare in modo approfondito qualsiasi singola politica.
La frammentazione del discorso pubblico, secondo la teoria dell’agenda-setting, indebolisce il controllo democratico e riduce l’impegno della cittadinanza, poiché i media tradizionali non riescono a tenere il passo con l’ampiezza delle informazioni.
Jennifer Walter offre alcuni suggerimenti per contrastare questo sovraccarico:
- Stabilire confini: concentrarsi su 2-3 temi chiave per mantenere un focus continuo.
- Utilizzare aggregatori e esperti: affidarsi ad analisti di fiducia per sintetizzare le informazioni e comprendere i pattern.
- Accettare il sovraccarico: riconoscere che sentirsi sopraffatti è l’obiettivo e prendersi delle pause per riflettere.
- Andare lentamente: aspettare 48 ore prima di reagire a nuove politiche per evitare decisioni affrettate.
- Costruire una comunità: condividere il carico cognitivo con altri, poiché la rete è più potente dell’individuo isolato. Anche se questa scelta è sempre più complessa. Da un lato proprio perché si è sempre più isolati e dall’altra perché le comunità, anche le più forti, sono in crisi.
Il messaggio finale è che il caos è progettato per disperdere la nostra attenzione: la resistenza si trova nel mantenere il focus.
Presidiare o andarsene? Una scelta personale
Una delle questioni più dibattute nelle conversazioni sui social (emblematico appunto che questi discorsi si fanno proprio sui social) è se sia meglio rimanere sui social per “presidiare” lo spazio digitale o abbandonarli del tutto. C’è chi sostiene che andarsene significherebbe lasciare campo libero, altri ribattono che non esiste un obbligo morale di restare. La verità è che non c’è una risposta certa e universale. Per alcuni, rimanere attivi sui social è un modo per mantenere connessioni e condividere idee. Per altri, abbandonarli è una scelta di autoprotezione.
Quello che conta è la consapevolezza. Essere consapevoli di come funzionano i social media, di come influenzano le nostre emozioni e decisioni, è il primo passo per riprendere il controllo. Ognuno potrebbe trasformare queste riflessioni in “policy individuali“, adattandole alle proprie esigenze e valori.
Verso un uso consapevole dei social
Le conclusioni portano all’invito a uscire dai meccanismi automatici dei social, anche solo con il pensiero. Non si tratta di demonizzare le piattaforme digitali, ma di riconoscerne i limiti e i pericoli. I social media possono essere uno strumento potente per connetterci, apprendere e condividere, ma solo se li usiamo con intenzionalità e equilibrio.
In un mondo sempre più dominato dal caos digitale, la vera sfida è mantenere la lucidità. Che poi, il nostro sovraccarico non è casuale: è il risultato di una strategia precisa. Ma con consapevolezza e piccoli gesti quotidiani, possiamo trasformare i social da fonte di stress a spazio di crescita e connessione autentica. E, se tutto fallisce, c’è sempre un video di gattini ad aspettarci.
Come il caos online influenza le nostre scelte
La digitalizzazione dei flussi informativi ha radicalmente trasformato il nostro rapporto con la realtà. In un contesto di perenne connessione, i social media sono diventati la lente attraverso cui osserviamo, e spesso interpretiamo, il mondo.
Questi ambienti non solo facilitano la diffusione di informazioni, ma influenzano profondamente il modo in cui le assorbiamo. Il concetto di architettura dell’informazione non è mai stato così cruciale come oggi: ogni contenuto, ogni notizia e ogni interazione sono progettati per guidare il nostro comportamento, manipolando la nostra attenzione e la nostra capacità di discernere.
L’architettura dell’informazione digitale non è solo una questione di struttura visiva o di navigazione funzionale; è anche una questione di psicologia cognitiva e di emozioni.
Le piattaforme social, per esempio, sono progettate per esporci continuamente a contenuti polarizzanti, capaci di suscitare risposte emotive forti. Ogni like, commento, o share agisce come un meccanismo che non solo raccoglie dati su ciò che ci interessa, ma ci spinge a interagire, spesso contro la nostra stessa volontà di riflessione. In un mondo dove l’informazione è omnipresente e facilmente accessibile, la vera sfida è navigare tra il caos e la chiarezza, riconoscendo quando siamo manipolati da contenuti che fanno leva sulle nostre paure e preoccupazioni.
Ci ritornerò presto con un focus si Shock Doctrine e Architettura dell’informazione.
La personalizzazione dei contenuti
Inoltre, la logica della personalizzazione dei contenuti, che si nutre delle nostre preferenze passate, crea una realtà informatizzata che non lascia spazio per il dissenso o la riflessione serena. Al contrario, i social media tendono a favorire l’effetto echo chamber, una sorta di rifugio in cui si amplificano le stesse idee, rinforzando convinzioni esistenti e riducendo il campo per il dialogo o il confronto. Questa architettura informativa, che si evolve senza sosta, è come una stanza che ci circonda sempre più strettamente, senza lasciare vie d’uscita. Non possiamo più scegliere liberamente i nostri punti di vista, ma siamo costantemente riprogrammati attraverso algoritmi che ci spingono a reagire più che a riflettere.
La velocità con cui l’informazione viene prodotta e consumata aggiunge un ulteriore strato di disorientamento. In un ambiente così dinamico, in cui i “flash” di notizie si susseguono senza sosta, diventa sempre più difficile mantenere una visione razionale delle cose. L’informazione cessa di essere un supporto alla comprensione, diventando invece un rumore che distorce la nostra capacità di orientamento, proprio come la strategia descritta nella Shock Doctrine di Naomi Klein. Quando siamo sopraffatti dal caos, tendiamo a fare scelte più istintive, guidate dall’impulso emotivo piuttosto che dalla razionalità.
Progettare spazi digitali
In un simile contesto, la riflessione sull’architettura dell’informazione dovrebbe comprendere non solo gli aspetti tecnici ma anche quelli etici e umani. Come possiamo progettare spazi digitali che ci aiutino a navigare il caos in modo consapevole e sano? Forse la risposta risiede nella capacità di restituire centralità alla persona, cercando di contrastare la logica dei flussi incessanti con una proposta di contenuti che promuova il pensiero critico e la serenità mentale. Non possiamo fermare il flusso, ma possiamo imparare a governarlo, tornando a una forma di curatela dell’informazione, dove la qualità è preferita alla quantità, e la riflessione al consumo immediato.
Questo richiede un ripensamento radicale non solo del modo in cui produciamo e distribuiamo contenuti, ma anche della nostra attitudine nei confronti delle piattaforme che ci ospitano.
In un’epoca in cui l’informazione è diventata una merce, la sfida è riappropriarsi della nostra capacità di discernere, scegliendo consapevolmente dove investire la nostra attenzione. Non più schiavi del caos digitale, ma protagonisti di un dialogo sano e costruttivo, che metta al centro l’uomo e la sua libertà di pensare.